English Pub
Posted on November 16th, 2011 at 2:06 AM | Tags: | 0 CommentsLa strada si apre sotto i passi incerti, cercando il suo ritmo, il suo battito, e poi si dissolve nel tempo che scorre lento #
Amsterdam. E così, dopo due settimane d’attesa, eccoci qua. In una città che non è nostra, ma che sentiamo appartenerci più di quanto avessimo immaginato. Quella sensazione di disorientamento, di essere stranieri persino a noi stessi, si è placata un po’ stamattina, quando abbiamo ricevuto quel piccolo foglio di carta che sembra un passaporto verso una vita possibile: il Sofi number.
È strano come un numero, una sequenza di cifre, possa avere tanto peso. Tre settimane fa ero nessuno, solo una dei tanti che vagano per le strade umide di Amsterdam, col freddo che penetra nelle ossa, le mani in tasca e il cuore altrove. Oggi, invece, ho un lavoro. Un pub inglese. Non è certo quello che sognavo da bambina, quelle illusioni sono lontane, ma in questo momento è tutto ciò di cui ho bisogno.
Entro nel pub per la prima volta da dipendente. L’odore è una miscela di birra stantia e vecchi ricordi. Il legno scuro del bancone, consumato dal tempo e dalle mani di chissà quante persone, racconta storie che non conosco. Ma forse le sentirò presto. Le luci sono fioche, giallastre, come se il mondo qui dentro avesse deciso di prendersi una pausa dalla frenesia esterna. Ci si muove piano, come in una bolla.
Le mie mansioni? Beh, iniziano sempre nello stesso modo: pulire. Strofinare quei tavoli appiccicosi è quasi un atto di purificazione, un rituale che mi ricorda quanto siamo fragili, quanto ci aggrappiamo a queste piccole certezze. E poi ci sono i bicchieri. Lavare, asciugare, riporre. Un gesto ripetitivo, ipnotico. Ma in qualche modo, lo trovo rassicurante. In questa routine c’è pace.
Ogni sera la clientela cambia, ma i volti restano sempre familiari. Uomini soli, viaggiatori stanchi, giovani che cercano l’ebbrezza per dimenticare. Io li guardo e li ascolto. Ascolto le loro storie, racconti fatti di parole spezzate tra un sorso e l’altro. E ogni tanto, mi chiedo: chi sarò io tra qualche mese? Sarò ancora qui, dietro questo bancone, o avrò trovato la mia strada?
Amsterdam ti avvolge con la sua nebbia sottile, come se cercasse di sussurrarti qualcosa, ma tu non riesci a decifrarlo. Forse è per questo che le persone qui sembrano sempre perse nei propri pensieri, anche quando ridono o chiacchierano tra loro. C’è un che di melanconico in ogni angolo di questa città. Eppure, è proprio qui, tra queste strade fredde e ventose, che ho iniziato a capire qualcosa di me.
Le notti nel pub sono lunghe, ma mai noiose. Ci sono le risate di qualche gruppo di amici che cercano di dimenticare il peso della giornata, ci sono i silenzi di chi, invece, ha troppo dentro per esprimersi. Io mi aggiro tra di loro, invisibile, ma presente. Ogni tanto, un sorriso, un cenno del capo, e poi torno a ripulire i bicchieri.
A volte mi chiedo se tutto questo abbia un senso. Sto davvero costruendo qualcosa, o sto solo cercando di non affondare? E poi mi ricordo che in fondo è così che funziona la vita: un giorno alla volta, un passo dopo l’altro. Oggi è il Sofi number, domani chissà.
Amsterdam non ti offre certezze. Ti lascia camminare nella sua nebbia, ti costringe a riflettere su chi sei davvero. E mentre cammino verso casa, con le mani fredde e il cappotto chiuso fino al collo, sento che qualcosa dentro di me sta cambiando. Non è solo il lavoro, non è solo la città. È il modo in cui il mondo mi appare. Le cose che prima davano sicurezza – la casa, la famiglia, i vecchi amici – ora sembrano lontane, sbiadite. Qui, in questa terra straniera, tutto è incerto, ma tutto è possibile.
E così, tra una pinta di birra e un vassoio di bicchieri puliti, tra i sorrisi dei clienti e i miei pensieri, scopro che sto imparando ad accettare questa indefinitezza. Forse è proprio questo che rende tutto più interessante, più reale. Non sapere dove sarò domani, ma avere la certezza che oggi, qui in questo pub inglese ad Amsterdam, sto vivendo.
Intanto, la musica riempie l’aria. Il sottofondo è una canzone di Lucio Battisti, una di quelle che ascoltavo da bambina. Mi fa sorridere, perché mi riporta a un tempo che sembra così distante ora. Eppure, è ancora dentro di me, come una vecchia amica che non ti ha mai davvero abbandonato.
E mentre la melodia scivola via, mi rendo conto che sto iniziando a riconoscere il mio riflesso in questo nuovo mondo. Non so ancora chi sarò domani, ma per la prima volta in tanto tempo, non ho paura di scoprirlo.