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Tossico è chi dimentica

Non era previsto. Non era neppure nella lista delle cose che pensavo avrebbero avuto spazio dentro di me, ed invece eccolo qui, come uno scarto improvviso nella traiettoria di un pensiero, come un riflesso che si insinua tra le fenditure della realtà e ci resta, come se avesse trovato un posto a cui appartenere. È iniziato tutto due mesi fa, quasi per caso, come si ricomincia una canzone dimenticata, una di quelle che avevi amato così tanto da temere di non poterla ascoltare più, per non rovinare il ricordo. Ed invece l’ho riascoltata. Ho riaperto Cerbonyl, il mio rifugio, il mio mondo parallelo, un gioco di sopravvivenza che per me non è mai stato solo un gioco. Era la possibilità di stare al mondo in un altro modo, di respirare diversamente, di costruire qualcosa in uno spazio che esisteva solo nella connessione tra un pensiero ed un altro. All’inizio era tutto come ricordavo. Il vento delle terre digitali che accarezzava i pixel con la stessa grazia con cui una mano può sfiorare la pelle. Le corse nel buio, le risate di chi combatte insieme, il sollievo di sapere che c’è qualcuno accanto a te, anche se dietro uno schermo. Mi sono immersa di nuovo in quella comunità, ho aiutato chi arrivava spaesato, ho costruito rifugi, donato risorse, parole, presenza. Ho dato. Senza riserve. Perché è così che ho sempre fatto: gettare il cuore oltre, anche quando il terreno non c’è. E per un attimo ha funzionato. Per un attimo ho sentito che aveva senso. Ma poi qualcosa ha iniziato ad inclinarsi, in silenzio, senza che me ne accorgessi. Come quando l’acqua cambia temperatura, e non lo senti subito, solo dopo capisci che ti stai bruciando. È cominciato con piccole cose, sguardi evitati nei canali vocali, silenzi lunghi nei messaggi, e poi, senza neanche un passo di mezzo, il veleno. Parole dette alle spalle, accuse, la freddezza dei giudizi dati da chi conosce solo la superficie, ma crede di aver visto il fondo.

Qualcuno ha distorto ogni gesto, ogni attenzione, ogni forma di gentilezza. Hanno preso il mio modo di esserci e lo hanno trasformato in un’arma. Mi hanno accusata di doppiogioco, come se la mia presenza fosse solo strategia, come se ci fosse un secondo fine in ogni mio gesto. Il clan che avevo aiutato con tutto ciò che avevo, ora vede in me un tradimento. Ed io resto qui, con questo peso addosso, come un’armatura spezzata che non protegge, ma soffoca. Forse è stupido. Forse è solo un gioco, lo dicono tutti, lo dicono sempre, ma lo spazio che occupa nella mia vita non è meno reale solo perché non ha materia. Il dolore non chiede permessi per essere legittimo. Quando qualcosa ti colpisce, non importa da dove arrivi, ti attraversa comunque, ti ferisce lo stesso. Mi ritrovo a pensare a quanto sia sottile la linea che separa il creare dal distruggere, quanto sia facile per l’odio insinuarsi nei pixel, nei messaggi, nei server. Una tossicità che non ha bisogno di volto, che non chiede di essere giustificata. Ti trova. Ti prende. Ti trascina. E ti svuota. La verità è che mi sento stanca. Di difendermi. Di spiegare. Di giustificare la mia presenza, la mia bontà, come se fossero anomalie da correggere. Nessuno si aspetta che tu dia senza volere nulla in cambio. Nessuno crede che tu sia lì solo perché vuoi esserci. Ho imparato che il sospetto è il primo linguaggio delle comunità stanche, e che la fiducia è sempre l’ultima ad entrare, ma la prima a morire. E allora mi guardo dentro, senza domande, senza risposte. Solo questo vuoto che pulsa, questa ferita che non smette di sanguinare perché non ha avuto nemmeno il tempo di formare una crosta. Scrivo per non lasciarla marcire in silenzio. Scrivo perché è l’unico modo che ho per respirare sotto il peso di ciò che è stato frainteso, di ciò che è stato deformato. La parola è l’ultima linea di difesa che mi è rimasta, e mentre le lettere si allineano sullo schermo, sento che ogni frase è un colpo di tosse, un grido strozzato che però non vuole più tacere.

Cerbonyl adesso mi sembra lontano, come un amore che hai amato troppo e che ora ti guarda con occhi che non riconosci. Eppure è ancora lì. Nonostante tutto. Nonostante il veleno. Nonostante il dolore. E in mezzo a tutto questo, resto io, con la mia voce, con la mia presenza, con il bisogno di capire come si sopravvive in uno spazio dove anche la bellezza viene corrotta. C’è una malinconia profonda in tutto questo. Una nostalgia di qualcosa che non so se sia mai stato vero o solo una proiezione del mio desiderio. Ma anche se fosse solo desiderio, non sarebbe meno reale. È il desiderio che costruisce, che dà forma al mondo. Adesso non so dove mettermi. Non so quale spazio possa ancora ospitare la mia fiducia. Ma continuo a scrivere, perché la scrittura è l’unico luogo dove posso ancora restare intera. Anche quando tutto intorno si sgretola, anche quando le parole degli altri mi attraversano come lame. La scrittura non tradisce. Non mente. Non ha bisogno di prove. È un atto puro, anche quando è sporco di dolore.

E forse è proprio in questo dolore che ritrovo me stessa. Non come ero prima, ma come sono adesso. Una versione ferita, più silenziosa, ma non meno vera. Continuo a cercare, a scavare dentro ogni frase, dentro ogni ricordo, dentro ogni gesto che ho donato senza aspettarmi nulla. E mi accorgo che qualcosa di me è rimasto comunque. Che il fuoco dentro non si è spento, anche se brucia in silenzio, anche se ora è una brace sotto la cenere. Scrivere è come trattenere un respiro troppo lungo, e poi lasciarlo andare in un silenzio che non promette sollievo. Ma anche in quel silenzio c’è qualcosa. C’è una presenza, un battito, un’eco. E io resto lì, nel punto in cui il suono si spezza e il pensiero continua a muoversi. Sempre. Senza mai fermarsi. E così finisce. Ma non davvero. Finisce come finisce un battito, solo per iniziarne un altro. Finisce come finisce un passo, solo per lasciare impronta. La porta resta socchiusa. Sempre.

Remember me,
Eclipse

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