
Svelamenti Amorosi
Posted on March 17th, 2004 / Esperienze / 24 CommentsC’è un rumore che ritorna, sempre uguale, sempre diverso. Un colpo secco, ritmico, che si insinua nei miei pensieri come il battito lento di un cuore stanco. È il coltello sul tagliere. Un movimento ripetuto, ostinato, che fende la polpa rossa di un pomodoro, l’anima bianca di una cipolla, la fragilità dell’aglio. Non c’è pace in questo gesto, solo una tensione muta che si annida tra le lame, tra le dita, tra le cose che non riesco a dire. Il basilico, con la sua fragranza verde e spavalda, cerca di nascondere qualcosa. Ma l’odore del dolore è più forte. Si attacca alla pelle, come la paura. Due settimane. Quattordici giorni scanditi da notti vuote, da risvegli in cui la realtà si è fatta tagliente, tagliata come il pane vecchio. T. ha una ragazza. Le sue parole non hanno tremato, la sua voce era piatta, liscia come l’acciaio di una lama. Non c’era colpa, non c’era esitazione. Solo la crudeltà della verità nuda, senza veli, senza carezze. Il tempo si è fermato lì, in quella frase. Tutto il resto è venuto dopo, come un’onda che si abbatte e poi si ritira lasciando solo detriti. Io sono rimasta nel mezzo. E non ho più trovato l’equilibrio. Mi sono fermata. Il coltello in aria, sospeso, come se il mondo potesse rompersi da un momento all’altro. Le foglie del basilico brillano di una luce innaturale, come se sapessero. La semplicità delle cose mi ferisce più di ogni parola. La primavera bussa alle finestre con la sua prepotenza dolce, ma dentro di me è ancora inverno. E forse lo sarà per molto. La rinascita degli altri è una condanna per chi resta indietro. Mi siedo. Le mani fredde, le spalle rigide, la schiena spezzata da un silenzio che non trova via d’uscita. L’aria non entra. Resta lì, a metà gola, come un grido che non ha mai imparato a diventare voce. Quando penso a T., il corpo si contrae. È un dolore che non ha bisogno di spiegazioni. Non ha bisogno di ferite visibili. Ieri l’ho visto. Rideva. Una risata che un tempo mi apparteneva, che era mia, solo mia. Ora è di un’altra. Di lei. La sconosciuta che ha preso il mio posto senza saperlo. Non le posso rimproverare nulla, eppure la odio con la calma glaciale di chi ha perso tutto senza averlo mai davvero avuto.
La luce nella stanza è fioca. Una penombra malinconica abbraccia le pareti, si insinua tra gli oggetti, scolpisce la polvere e le crepe. Fuori, i rami nudi degli alberi cercano il cielo come mani disperate. La pace non arriva. Solo un rumore sordo dentro, una vibrazione continua che non mi lascia mai. Eppure continuo a ricordare. Continuo a torturarmi. Una sera d’autunno, il parco, io e T. La voce leggera, gli occhi limpidi. Le nostre parole cadevano come foglie, leggere, perfette nel loro essere inutili. Credevo fossero eterne. Ma ogni leggerezza nasconde un peso. Ogni bellezza un’illusione. Il tempo mi scivola addosso. Non riesco a controllarlo, non riesco a domarlo. È egoismo, questo mio stare male? Forse sì. Forse volevo che restasse mio anche quando non lo era. Forse ho costruito castelli con la sabbia dell’ingenuità. Mi sono aggrappata a un’idea, a un affetto che non aveva nome. E ora non riesco a lasciarlo andare. Come un bambino che stringe tra le mani un giocattolo rotto, io stringo il ricordo di qualcosa che non è mai stato reale. Ma che per me lo era. Ed è questo che fa più male. La mia verità che si scontra con la sua indifferenza.
Mi alzo. Apro la finestra. L’aria fredda mi investe, entra nella pelle come una lama sottile. C’è odore di terra, di fiori che non ho chiesto, di cose che nascono anche se nessuno le guarda. La sincerità della natura è violenta. Non chiede il permesso, non si scusa. Esplode. E io resto lì, a guardare. Come un’estranea nel mio stesso corpo. Il cielo si tinge di rosso, un rosso denso, carico di presagi. C’è qualcosa di irreparabile nell’orizzonte che cambia. Qualcosa che si spezza e non si può ricomporre. Ogni giorno ripeto a me stessa che passerà. Che prima o poi non farà più male. Ma sono bugie sussurrate solo per sopravvivere. La verità è che ci sono dolori che si addomesticano, ma non se ne vanno. Restano in agguato, come animali feriti pronti a mordere quando meno te lo aspetti. E allora scrivo. Scrivo per non urlare. Scrivo perché è l’unico modo che ho per esistere. Per rimanere attaccata a qualcosa. Le parole sono i chiodi che mi tengono al muro. Ogni frase è una ferita aperta, ma anche un punto d’appoggio. E io ho bisogno di entrambi. Del dolore e della resistenza. Non c’è redenzione in quello che provo. Non c’è giustizia. Solo una lenta accettazione che non ha il sapore della pace, ma quello dell’abitudine. E intanto vivo in questo spazio vuoto, in questo margine tra ciò che era e ciò che non sarà mai. In quell’istante eterno in cui le cose cambiano senza che tu te ne accorga. Mi mancano troppe cose per riuscire a elencarle. E non c’è nulla che possa colmare quel vuoto. Solo la scrittura. Solo il gesto ostinato di mettere in fila parole che non risolvono ma tengono in piedi.
La cucina è ancora lì. Gli odori si sono mescolati, hanno invaso la stanza, hanno preso il sopravvento. Non c’è più nulla da tagliare, ma continuo a sentire il rumore del coltello. È dentro di me, come un’eco, come un ricordo che non vuole svanire. Anche adesso che ho smesso. Anche adesso che tutto è fermo. C’è una porta aperta in fondo alla mente, da cui entra il vento della memoria. Non so chiudere. Non so lasciar andare. Ma continuo a camminare. Continuo a scrivere. È così che sopravvivo. Il silenzio ora è più denso. La luce più tenue. Resta solo la sospensione di ciò che non è stato detto. Di ciò che non sarà mai. E il passo successivo, come sempre, ancora non so dove porta.
THE END.
Remember me,
Eclipse
Non c’è niente di più vero della paura di essere troppo, di sentirti troppo, di amare troppo. È una sensazione che non si può controllare, eppure ci teniamo stretti a quella paura come fosse una benedizione.
Aly, questa paura è come una carezza che ci scivola dentro, che ci consuma e ci fa sentire vivi, ma è anche una trappola che non possiamo evitare. Forse è proprio nell’essere troppo che c’è la bellezza, o forse il dolore. Non lo so, ma camminiamo comunque su questo filo.
Ho letto questo post e mi sono fermato. Mi ha lasciato senza parole, ma con una sensazione che è difficile da spiegare. Forse è la paura che non si riesce a scacciare.
La paura è sempre lì, Mateus, ad aspettarci in un angolo. Ma è anche quella che ci spinge a muoverci, a non rimanere immobili. Ogni parola che non diciamo è una porta che restiamo chiusi dentro. Eppure, è solo quando affrontiamo quella paura che possiamo finalmente sentirci liberi.
Ho sentito il gelo in ogni parola, ogni respiro, ogni pausa tra le righe. È come se fossi stata lì con te, sul lungomare, a guardare il mare che sa più di quanto possiamo dire. Grazie per aver scritto questo, per avermi fatto sentire che non sono sola nei miei silenzi.
Mi sembra che il silenzio sia proprio il punto in cui ci perdiamo tutti, Alexiel. Ma forse è anche lì che ci ritroviamo. Grazie per essere passata, per aver letto senza bisogno di dire. Il silenzio è una lingua che non tutti parlano, e tu l’hai capito.
Non mi piace come mi sento dopo aver letto questo, ma non posso smettere di pensare a quanto hai detto. Mi fa male, è strano, è come se stessi leggendo una parte di me che non sapevo esistesse.
Forse è proprio questo che fa male, Nicole. La consapevolezza di quello che non siamo pronti a vedere in noi stessi. La lettura di qualcosa che forse non volevamo nemmeno sapere. Ma forse è il primo passo per imparare a vivere in quella verità che ci spaventa.
Non credo più nel destino, ma forse in certi momenti sembra davvero che il tempo giochi con noi.
È strano come il tempo possa sembrarci un nemico o un alleato, Elikatera. Ma è sempre lì, a osservare, a decidere per noi. Siamo solo piccole schegge in un ingranaggio che non capiamo mai del tutto. E il gelato, come il destino, si scioglie prima che possiamo afferrarlo.
Non credo che ci sia mai stato un momento in cui ho capito così bene ciò che provi. È come un gelato che si scioglie e ti lascia con le mani sporche, con quel senso di colpa che non se ne va.
Esattamente, Marty. Quello che ci lascia il gelato sciolto è un riflesso di quello che siamo, del nostro bisogno di tenerci tutto dentro. Ma a volte è solo nella fragilità che ci ritroviamo, che capiamo chi siamo davvero, quando non c’è più niente da nascondere.
Mi sento sempre così, sempre tra verità non dette e bugie che mi raccontano di essere sicura, ma non lo sono mai. Questo post è come una scossa, mi ha fatto pensare a quanto poco sappiamo di noi stessi.
Le bugie sono quelle cose che ci cullano per un po’, Anny. Ma prima o poi si sgretolano, sempre. Le verità non dette sono quelle che ci scavano dentro, fino a farci vedere quello che non vogliamo mai ammettere. Ma forse è in quel momento che ci scopriamo per davvero.
C’è una parte di me che odia il fatto che queste parole mi abbiano toccato così profondamente. Come posso non sentire che questa storia è un po’ anche la mia?
Forse è proprio quello che ci rende tutti uguali, Cenny. Le parole che tocchiamo, che sentiamo come nostre, sono quelle che non possiamo dimenticare, anche se vorremmo. La tua reazione è il segno che questo è qualcosa che ci unisce, che ci fa sentire parte di una verità che non possiamo scappare.
Ecco, è così. Come un passo che ti porta lontano, ma quando ti guardi indietro capisci che il cammino non è mai finito. Non so se sono pronta a guardarmi dentro come hai fatto tu, ma leggere queste parole mi ha fatto sentire qualcosa che non sentivo da un po’…
Il cammino non è mai finito, Debbh. Forse è proprio quello il punto. Non c’è mai una fine che possiamo segnare con precisione, perché dentro di noi c’è sempre un passo che resta da fare. Leggere è il primo passo, e forse è già abbastanza per farci muovere.
Sospesa. Questo post è come una panchina vuota che non è mai davvero vuota. Eppure è silenziosa, ti guarda senza dirti nulla eppure ti dice tutto.
La panchina vuota è il simbolo di tutte le cose che non riusciamo a dire, Babilon. Eppure, è proprio in quel silenzio che possiamo trovare tutto. Le parole, a volte, non sono altro che un inganno, una copertura. Ma il silenzio… il silenzio è la verità che non ha bisogno di essere pronunciata.
Non so come descrivere la sensazione che ho provato leggendo queste parole. Come se mi avessero tolto qualcosa, ma anche dato una verità che non volevo sentire.
A volte è proprio così, Billa. Le parole possono ferire, ma spesso è quella ferita che ci fa crescere. È come quando perdiamo qualcosa che credevamo nostro, eppure è proprio in quella perdita che troviamo una parte di noi che non sapevamo nemmeno esistesse.
Leggere questo è come tornare a casa, anche se casa è un posto che non trovo mai. Ci sono così tante cose che non diciamo, eppure sentiamo che ci appartengono.
La casa è proprio questo, Ila. Non è un luogo fisico, è un punto in cui siamo noi, in cui le parole che non diciamo sono comunque nostre. A volte siamo più vicini a casa quando siamo più lontani da essa. Perché è dentro di noi che risiedono le verità che non vogliamo rivelare.