Squarcio…

Squarcio…

Posted on March 27th, 2004 / / 0 Comments
Bellezza & Arte / Feeling cosmically pure at 1:37 am

La casa è immersa in un’oscurità che sembra sfiorare la pelle, un buio che non è solo fisico, ma che si insinua dentro, avvolgendo ogni pensiero, ogni respiro. La luce del lampione fuori dalla finestra è fioca, intermittente, come un battito di cuore che si spegne e si riaccende senza ritmo. Ed io, lì, seduta sul divano, stringo tra le mani una tazza di tè che, ogni secondo che passa, diventa sempre più fredda. Il vapore che ne esce si solleva lento, quasi a sfiorarmi il volto, ma non è il calore che cerco, non è quello che mi manca. Il suo profumo è dolce, di arancia e miele, ma in questa stanza, questa sera, tutto sembra estraneo. Come se fosse un qualcosa che non mi appartiene, che non mi riconosce. Eppure, mi aggrappo a quel profumo come se fosse l’ultimo filo di vita in un mare che mi inghiotte. E lo guardo, il tè che si raffredda e con lui, il mio respiro che si fa sempre più pesante, più irregolare. I libri sono sparsi sul tavolo, una traccia di quello che ero, di quella persona che cercava di essere altro, che si rifugiava nelle parole di altri per non affrontare le proprie. Un maglione abbandonato sulla sedia, come se la fragilità fosse più accettabile se nascosta in un gesto disordinato. E poi c’è quel dannato biglietto, scritto con la tua calligrafia, nervosa, precisa, che mi fissa da lontano come un testimone muto della nostra fine. Non lo tocco. Non ancora. Non voglio. Non so se sarò mai pronta a farlo. Ti ricordo come sei entrato nella mia vita, senza barriere, senza preamboli. Le tue parole erano come una tempesta, forti, dolorose, le sue onde che travolgevano ogni muro, ogni resistenza. Parlavi di sogni, di cicatrici, di quel peso che ti portavi dentro come un fardello che non ti apparteneva, ma che non riuscivi a gettare via. Io, invece, stavo lì a guardarti, ad ascoltarti, ma non ti ho mai mostrato davvero chi ero, non ti ho mai dato la chiave per entrare nel mio mondo. Mi sono nascosta dietro la maschera di un’indipendenza che, alla fine, non era altro che paura, paura di non saper essere abbastanza, paura di essere troppo. Ed ora eccoci qui, entrambi distanti, ma questa distanza l’ho costruita io, con le mie mani, con le mie scelte, con i miei silenzi.

Stasera sei venuto da me, come un fantasma che ritorna per farsi vedere, per farmi sentire il peso di tutto ciò che non abbiamo detto. Sei seduto accanto a me, con quell’aria severa che ti metti addosso quando non vuoi mostrarti vulnerabile, quando non vuoi farti ferire. «Alice, io non ce la faccio più.» Le tue parole sono arrivate come un colpo secco, lasciando nell’aria una scia di dolore, un peso che mi schiaccia il petto. Il silenzio che ha seguito quelle parole è diventato pesante, quasi soffocante, e ho visto il tuo sguardo fermarsi su di me, cercare qualcosa, una reazione, una risposta che non c’era, che non avrei mai potuto darti. Ed io, io non ho detto nulla. Non una parola. Ho stretto la tazza, come se quella ceramica potesse contenere tutta la mia confusione, tutta la mia paura. E tu hai continuato, il tuo dolore che cresceva, che distruggeva i muri che avevo costruito per difendermi. «Quel bacio a Capodanno… mi ha dato speranza. Ma poi tu hai chiuso tutto, come se non significasse nulla. Io sono qui, fermo, mentre tu scappi». Ecco, scappo. Scappo da te, scappo da me stessa. Le tue parole mi hanno ferito più di quanto avrei mai voluto ammettere, non perché fossero ingiuste, ma perché erano vere. Ogni singola parola che hai pronunciato è entrata dentro di me come un coltello, non perché tu volessi ferirmi, ma perché in quelle parole c’era tutto ciò che non avevo avuto il coraggio di affrontare, tutto ciò che non avevo avuto il coraggio di ammettere. E mentre mi sentivo schiacciare da quel peso, da quella verità che non riuscivo a digerire, non riuscivo a trovare neppure la forza di rispondere. Non riuscivo a dirti che mi dispiaceva, che avrei voluto fare qualcosa, che avrei voluto prenderti e stringerti, ma anche in quel gesto avrei avuto paura di perderti di nuovo.

Poi te ne sei andato. La porta ha sbattuto dietro di te, come un colpo finale, un’eco di ciò che non poteva più essere. Il silenzio che è seguito è stato più forte di ogni parola, più pesante di ogni rimpianto. Ho preso il biglietto, le tue parole scritte, e l’ho letto ancora e ancora, come se cercassi una risposta che non ci fosse. Ma non c’era risposta, solo un addio. Un addio che non urlava, ma che si faceva sentire in ogni singola riga. «Ti auguro di trovare qualcuno che sappia amarti come io non sono riuscito». Era lì, scritto con un’incredibile dolcezza, con quella tristezza che ci siamo portati addosso e che non ci ha mai abbandonato. La stanza ora è gelida. Il tè è ormai solo una bevanda dimenticata, priva di ogni calore. E io mi chiedo se abbia ancora senso cercare risposte, se forse non è troppo tardi per ogni parola non detta, per ogni bacio mancato, per ogni abbraccio che non abbiamo mai avuto il coraggio di scambiarci. Ma in fondo lo so. Non c’è risposta. O forse la risposta è nel silenzio, in quella distanza che ci separa, nella mia incapacità di aprirmi, nella mia paura di perderti mentre cercavo di non perdermi. Quante maschere indossiamo? Quante ne lasciamo cadere, solo quando ormai è troppo tardi?

« Dopo tanti errori a volte guardi su
Si rimane soli prima o poi
E pensi mentre quasi non respiri più
L’aria tornerà prima o poi »

« A volte ti ritrovi ad aver perso il conto
Di ogni secondo andato dall’ultimo giorno in cui
Tu la guardavi sereno batteva vita davvero
Dicevi: Tutto va bene sincero… »

« E in poco ti ritrovi ad aver perso il senso
Di stare con qualcuno un po’ per passatempo
E non trovare più quella complicità
Ogni volta in un vestito che poi non ti sta! »

SOLITUDE.
Remember me,
Eclipse


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