Non c’è libertà senza ascolto, senza fermarsi, senza sentire il battito che siamo davvero #
Luglio 2006. Il caldo grava sulle ossa come un mantello di metallo fuso, ogni gesto diventa una battaglia, ogni pensiero una ferita che brucia sulla pelle. Le strade si fanno spettrali, consumate dall’asfalto che trema sotto l’arsura. La città trattiene il fiato, e anch’io, in questa quiete forzata, mi ritrovo immobile. Non per scelta, ma per necessità. Rimango. Non fuggo. Mi lascio cadere dentro ogni secondo che passa. Il tempo si appiattisce, si sfalda, si stende su di me come lenzuola pesanti e sudate. Cucino. Senza fame. Per abitudine. Ogni movimento, ogni taglio, ogni vibrazione del coltello sul tagliere è un’eco che rimbalza tra le pareti vuote. La cipolla frigge nell’olio, l’odore si insinua tra le crepe del muro, tra i pensieri, tra i nodi che non ho mai sciolto. L’aroma si mescola al caldo, lo attraversa, lo contamina. Non è solo cibo, è memoria. È qualcosa che sale dalla pancia come un istinto, come una parola che non ho mai detto. Ogni schizzo dell’olio è una piccola scossa, come se la realtà provasse a svegliarmi. La finestra è aperta, ma non c’è vento. Solo stelle. Immobili, lontane, irraggiungibili. Non mi parlano, ma mi osservano. O forse sono io che mi rifletto in quel cielo che non cambia mai. Ogni stella è un pensiero che ho avuto e che ho perso, una parola che non ho mai detto, un bacio che non ho dato. Ogni luce è una promessa non mantenuta. Lo spazio tra di loro è ciò che resta. Quello che non è stato. E io sono lì in mezzo, come sospesa tra due cose che non si toccano mai. La distanza tra me e chi credevo di essere è la stessa che separa la mia pelle dal mondo. Sospesa. Come se vivere fosse un atto di equilibrio su un filo che non si vede. Scopro che il mio malessere ha radici interne, silenziose, ramificate. Non viene da fuori. Non nasce da ciò che mi circonda. È un seme che ho coltivato a mia insaputa. Una spina che porto dentro. Una fame che non sa saziarsi.
Scrivo. È l’unico gesto che ha senso. L’unico movimento che non mi pesa. Le parole scivolano sulla carta come lacrime che non ho mai versato. Scrivere è respirare quando manca l’aria. È l’unico spazio che non giudica, l’unico luogo dove posso essere. Ogni frase è un colpo che assesto contro l’apatia, un grido muto contro la trasparenza che mi avvolge. Le lettere si intrecciano, formano pensieri che mi attraversano senza chiedere permesso. Rileggo. Riconosco ogni frammento. Ogni parola è una piccola verità che non avevo il coraggio di ammettere. È come se ogni sillaba fosse una scheggia che esce, finalmente. Sanguina, ma è necessario. C’è una consapevolezza che nasce dalla fatica. Non è rivelazione, è nudità. Mi scopro. Mi vedo. Il tappeto è sollevato. La polvere danza nell’aria, colpita dalla luce fioca della cucina. La verità è lì, non si nasconde. Resta. E io la guardo. In questa estate che mi tiene prigioniera, ritrovo me stessa nel silenzio. Nel vuoto che prima avevo paura di ascoltare. I rumori si sono dissolti, e ora posso sentire il battito che mi attraversa. Ritmico, imperfetto, ma vivo. Un battito che non cerca approvazione, che non chiede conferme. Mi accorgo di quanto sia stato facile lasciarmi definire, quanto sia stato comodo vestire ruoli che non erano miei, abiti cuciti da mani estranee. Ora li sento stretti. Non mi appartengono più. Il caldo mi incolla alla pelle il peso di ogni maschera indossata. Non c’è più spazio per la finzione. Solo verità.
Mi muovo come se stessi camminando in una stanza buia che conosco a memoria. Ogni passo è familiare, ma non meno doloroso. So dove sono, ma non so dove sto andando. È questa la condanna e il privilegio della consapevolezza. La strada non è mai dritta, non è mai chiara. È curva, è sporca, è piena di angoli in cui inciampo. Eppure continuo. Scrivo. Continuo a scrivere. Anche quando le parole si ribellano. Anche quando non trovo il modo giusto per dire ciò che sento. Scrivo perché non posso farne a meno. Perché è l’unico modo che ho per non spegnermi. Le frasi si rincorrono come onde. Nessuna conclusione. Nessuna certezza. Solo il moto costante del dubbio, che non è nemico, ma compagno. La scrittura è la mia mappa in un mondo che non voglio più fingere di capire. Non cerco risposte. Non le pretendo. Abito la domanda. La accolgo. La lascio sedere accanto a me. In quel vuoto, in quella mancanza, c’è spazio per tutto ciò che ancora non conosco. È lì che si annida la bellezza. Nell’incompiuto. Nel frammento. In ciò che manca. Ogni parola che scrivo non completa, ma apre. Ogni frase non chiude, ma ferisce. Non c’è guarigione, solo il gesto continuo di cercare.
E resto così. In equilibrio tra l’ombra e la luce, tra ciò che ero e ciò che sto diventando. Nessun punto fermo. Solo virgole, pause, respiri. La porta resta socchiusa. Il fiato si spezza, ma non si spegne. Il cielo continua a brillare, indifferente, e io continuo a scrivere.
Remember me,
Eclipse