Appunti da una conferenza mai tenuta
Frammenti di un discorso che non si lascia pronunciare
È cominciato tutto con un pensiero che mi è scivolato dentro senza chiedere permesso. Un pensiero che non ha avuto bisogno di parole, solo la gravità muta delle cose non dette. E da allora mi accompagna. Come una febbre bassa, come un battito nel petto che non smette mai davvero. È un pensiero che ha il volto di Einstein, ma non quello che sorride dalle copertine, non quello delle formule risolte, non quello dei premi e degli articoli scientifici. No. Il mio Einstein è quello che resta in silenzio troppo a lungo, quello che si rifugia nella matematica come in una preghiera segreta, quello che osserva il mondo da dietro un vetro spesso, impenetrabile, e sente tutto troppo forte. Lo vedo seduto, le mani che si muovono senza rumore, gli occhi che seguono linee invisibili. Non fugge. Resta. Anche quando tutto crolla. Anche quando dentro si spacca qualcosa che non si potrà mai più aggiustare. C’è un tipo di solitudine che non si sceglie, ma che riconosce in te una casa. E ci si accoccola dentro come un animale selvatico che non vuole più fuggire. È una solitudine densa, piena di pensieri che nessuno può condividere. Non perché siano troppo grandi, ma perché sono troppo veri. E la verità, quando la tocchi troppo da vicino, fa a pezzi ogni possibilità di consolazione. Einstein la conosce, questa verità che morde. La verità che non salva, che non giustifica, che non perdona.
Le sue formule non sono mai state solo calcoli. Sono soglie, ferite, geometrie dell’anima. Ogni simbolo un tentativo di tenere insieme ciò che il mondo tende a separare. Ogni equazione un gesto d’amore verso qualcosa che non si può comprendere ma che si deve onorare. L’universo come specchio, la mente come spazio sacro, il dubbio come unica forma di fede. In questo vedo la sua forza. Nella sua fragilità. Nella sua umanità che non si esibisce ma si lascia intravedere nei silenzi. Vorrei poter tornare indietro, ma non per parlargli. Non per chiedere, non per sapere. Solo per esserci. Per restare accanto a lui in una stanza dove il tempo non entra, dove le parole non servono, dove il silenzio basta. Vederlo scrivere, camminare, fissare il vuoto che per lui non è mai davvero vuoto. Vederlo perdersi nella spirale dei pensieri, in quella danza mentale che conosco fin troppo bene, perché anche io vivo lì dentro. Tra una distrazione che brucia e un’intuizione che sfugge. C’è qualcosa di sacro nel non riuscire a fermare il flusso. In quella continua tensione verso qualcosa che non si raggiunge mai. Lo so, perché lo sento. Perché anche in me c’è quel battito irregolare che chiamiamo attenzione, ma che è solo una forma di esistenza più frenetica, più disordinata, più viva. L’ADHD non è solo una diagnosi, è una geografia diversa della mente. È vivere con il suono troppo alto, con la luce che pulsa, con i pensieri che si accavallano come onde. E in quel caos, a volte, compare qualcosa di puro. Qualcosa che non si può afferrare ma che illumina. Einstein ci viveva dentro. Non lo diceva, ma lo sentiva. E io lo vedo, lo sento, lo riconosco. Quel bisogno di ordine in un mondo che urla disordine. Quel bisogno di silenzio mentre tutto dentro frantuma. Non cercava il successo. Cercava la quiete. Una quiete che non ha nulla a che vedere con il silenzio esterno, ma con quella vibrazione profonda che a volte si raggiunge quando smetti di combattere e lasci che il pensiero ti attraversi.
La mia conferenza mai tenuta è un omaggio a questo. A quella tensione che non si placa. A quell’isolamento che non è una fuga, ma una scelta inconsapevole. A quella malinconia che accompagna chi ha visto troppo, chi ha sentito troppo, chi ha capito che la verità è bella solo da lontano. Da vicino, fa paura. Da vicino, brucia. Io non sono Einstein, ma sento il suo respiro nelle notti in cui non riesco a dormire. Sento il suo passo lieve nei corridoi della mia mente. Sento le sue mani che disegnano formule nell’aria, come se cercassero un punto fisso in un universo che non si ferma mai. E io, in silenzio, lo seguo. Senza capire davvero. Ma sentendo che in quel non capire, in quella confusione luminosa, c’è tutto. Non voglio spiegare. Non voglio tradurre. Voglio solo lasciarmi scrivere da queste immagini. Lasciare che siano loro a parlare, a strattonarmi l’anima, a farmi male e bene insieme. Voglio sentire ogni parola come un colpo, ogni pausa come un abisso. Non c’è logica che tenga. C’è solo il bisogno urgente di testimoniare. Testimoniare un vuoto, una mancanza, una tensione. Testimoniare il fatto che a volte la grandezza non si misura in risultati, ma in quanto si riesce a sopravvivere a se stessi. Einstein non ha vinto nulla. Ha solo resistito. E io voglio imparare a farlo. Non con la testa alta, ma con le mani tremanti, con il cuore aperto, con la mente che non smette di correre. Ogni volta che provo a scrivere di lui, qualcosa dentro si spezza. Qualcosa cede. Non perché sia triste, ma perché è vero. E la verità, quando si affaccia, non chiede permesso. Entra, spalanca finestre, rovescia mobili, e ti lascia lì, nuda, con lo sguardo fisso e le parole che non bastano.
Questa non è una conferenza. È una confessione. È un atto d’amore che non si può dire ad alta voce. È la carezza che non ho dato, l’abbraccio che non ho ricevuto, il silenzio condiviso con qualcuno che non ho mai incontrato, ma che abita le mie stesse vertigini. Il linguaggio non basta. Non basta mai. Ma resta l’unica cosa che abbiamo per cercare. E allora scrivo. Scrivo come chi costruisce un ponte tra due isole lontanissime. Scrivo per non affogare. Scrivo perché la solitudine, se la racconti, diventa spazio. E in questo spazio, forse, qualcosa respira. Non io. Non tu. Qualcosa che ci contiene entrambi. E ci lascia sospesi, come in una stanza senza pareti, dove ogni parola è un’eco e ogni eco è una possibilità.
Einstein.
Remember me,
Eclixar