
Polvere, terrore, memoria viva
Posted on September 11th, 2001 / Memoria / 0 CommentsL’11 settembre, un giorno che non puoi dimenticare, che ti attraversa come un vento gelido. Nessuno ti avvisa. Non c’è un segno, un preavviso che ti prepari. Eppure, quando accade, ti rendi conto che il mondo, quello che conoscevi, è sparito. All’improvviso, senza avvertire, senza lasciare spazio alla comprensione. E tutto ciò che puoi fare è restare lì, in silenzio, come se la tua stessa esistenza fosse stata scossa da un terremoto. Alle 14:46, ora locale, tutto cambia. L’aria sembra farsi più densa, come se il respiro stesso fosse più difficile. Un aereo, uno dei tanti che volano sopra di noi ogni giorno, colpisce con forza il World Trade Center. Un’esplosione. Non è più un suono, è un urlo. Un urlo che ti perfora il petto, che ti fa perdere il respiro, ti fa fermare, come se il tempo stesso avesse deciso di interrompersi. Un attimo, e tutto quello che conoscevamo diventa qualcosa di diverso. Poi il secondo, il terzo. E il mondo diventa una spirale di caos.
Non c’era tempo per pensare. Il corpo reagisce istintivamente, e l’istinto ti porta a correre, a scappare, ma non sai dove. Non puoi restare lì. Quella polvere che sale, quei rottami che piovono dal cielo, non sono solo la fine di un edificio. Sono la fine di un’epoca. Il crollo delle torri non è solo fisico. È dentro, è profondo. È la consapevolezza che niente sarà mai più come prima. Il tempo non scorre più in maniera lineare. Ogni secondo che passa è un viaggio in un luogo che non riconosci. Non esistono più sicurezze, non c’è più la barriera che ci separava dalla tragedia. La morte diventa concreta, e si avvicina in un modo che mai avremmo potuto immaginare. Quante persone sono morte? Quante vite si sono fermate lì, in quel momento? Non ci sono numeri. Non c’è una cifra, solo l’eco di una domanda che non avrà mai risposta. Il numero è un concetto che non può esprimere ciò che è stato perso, ciò che è svanito. Gli esseri umani, diventano numeri senza volto, ombre che attraversano la storia senza lasciare traccia. Ma sono persone, uomini e donne che non ci sono più. E non possiamo fare altro che guardarli scomparire, impotenti.
A volte mi chiedo: come si può descrivere una ferita così profonda senza cadere nel vuoto, senza perdere il controllo della parola? Come si può raccontare una tragedia che è troppo grande per essere raccontata, un dolore che non trova una forma, un significato? Cosa siamo diventati da quel giorno? Un popolo ferito, ma non ancora distrutto. L’ombra della guerra, quella che ci sembrava lontana, è entrata nelle nostre case, nei nostri cuori. Non esiste più la protezione del nostro piccolo angolo di mondo. Non c’è più la certezza che il domani arrivi senza rumori, senza grida. La guerra è diventata una presenza silenziosa, che ti abbraccia come una nebbia. Ma che prezzo siamo disposti a pagare per fermare l’impossibile? Cosa siamo disposti a sacrificare in nome della nostra sicurezza? La risposta è sconosciuta, e forse, più passano i giorni, più diventa sfuggente, imprecisa.
Siamo piccoli, impotenti. Eppure, dentro di noi, cresce una domanda che non riusciamo a scacciare: siamo pronti? Pronti a guardare l’abisso negli occhi e affrontarlo? Pronti a vivere con la consapevolezza che nulla tornerà mai come prima? Non so se esiste una risposta. Ma è questa la domanda che ci segna, che ci attraversa. La domanda che rimarrà sempre aperta. Un respiro che non trova mai la fine. Un pensiero che non si conclude mai. E se fosse solo l’inizio di qualcosa di ancora più grande?
MEMORY.
Remember me,
Eclipse