L’Italia è sull’orlo di un precipizio. Ogni giorno, passo dopo passo, ci avviciniamo ad un punto di non ritorno, ma intorno a me la vita continua, apparentemente immutata. La gente vive, spera, ma in silenzio, nell’attesa di un cambiamento che non arriva mai. È come se ci fossimo persi, come se l’orizzonte fosse diventato un miraggio. Le strade sono un fiume di volti stanchi, segnati, che si mescolano in un flusso indifferente. Sono come me, eppure non sono come me. La crisi economica ci spinge a cercare di non pensare troppo, di non fare i conti con quello che non riusciamo più a cambiare. La politica? Le sue parole svaniscono nel nulla, disperse in un vuoto che nessuna promessa può riempire. Lo sguardo di chi mi passa accanto è perso nel futuro, ma il futuro sembra non esserci più. Le giornate si trascinano tra un’inquietudine e l’altra, mentre il peso della disoccupazione schiaccia, come un’ombra che si fa sempre più lunga. Le imprese chiudono, i posti di lavoro sono sempre più incerti, la paura diventa una compagna di viaggio quotidiana, difficile da sfuggire. Come si fa a vivere quando il pensiero di non riuscire ad arrivare a fine mese è un pensiero costante? Quando l’unica certezza è l’incertezza? Quando la speranza si fa così sottile che sembra perdersi in un respiro?
Gli occhi sono fissi su un orizzonte che non promette nulla. Forse, per un attimo, si vorrebbe ignorare la realtà, sperando che qualcosa cambi, che i provvedimenti del governo siano la soluzione. Ma anche quelli sembrano svanire rapidamente, come il vento che disperde la sabbia. Le politiche sono troppo timide, troppo poco incisive, troppo lontane dalla gente. Non c’è un piano chiaro, non c’è un’idea di ripartenza che dia vera speranza. La risposta alla crisi sembra sempre più debole, come una medicina che cura il sintomo ma non la causa. Mi domando se tutto questo possa davvero cambiare. Se ci sarà mai una reazione concreta, un’urgenza di guardare la realtà in faccia senza paura. Perché il sistema è rotto, ma siamo ancora fermi, immobili, come spettatori in attesa che qualcosa accada da sola. Eppure c’è una parte di me che sa che questa è anche una possibilità. Un’opportunità di cambiamento, un’occasione di riflessione profonda. Forse è proprio questa crisi che ci obbliga a fermarci e a pensare, ad alzare lo sguardo e guardare oltre la paura.
Ogni crisi, ogni caduta, è una porta che si apre verso un’altra direzione. Eppure, ci chiediamo se siamo pronti a varcarla. Se siamo davvero pronti a rinascere, a riscoprire la nostra forza, a pensare in modo nuovo. Non possiamo restare prigionieri di un sistema che non ci rispecchia più. Non possiamo, davvero. Ma se non reagiamo adesso, che futuro ci aspetta? Se restiamo immobili, come un mondo che non sa dove andare, tutto finirà in un eterno presente di incertezze e timori. Eppure, in questa attesa, c’è anche una domanda che non se ne va, che mi attraversa, come un’onda che non si placa mai. È una domanda che risuona, che cresce dentro di me: siamo davvero pronti ad agire, o ci faremo inghiottire dalla rassegnazione, come tanti altri prima di noi? La risposta non arriva, ma forse non è mai stata la risposta a ciò che conta. C’è qualcosa che sta ancora aspettando, come un segreto non rivelato, come una strada che non abbiamo ancora scelto di percorrere.
La città si distende davanti ai miei occhi, silenziosa, sospesa tra il buio e la luce. E in fondo, forse, è lì che si nasconde la risposta: non nel cambiamento che viene dall’esterno, ma in quello che siamo pronti a vivere dentro di noi. E, forse, è questo che ci spaventa di più: la possibilità di essere noi stessi a scegliere, a decidere, a cambiare. Siamo pronti a farlo?
Crisis.
Remember me,
Eclipse