
Lingua, Sangue, Silenzio, Onore
Posted on April 9th, 2025 / Memoria / 0 CommentsCerti giorni bastano poche parole, eppure sembrano portarsi dietro il peso di secoli. Mi è bastato sentire la voce di un re attraversare l’eco della Camera dei Deputati, scandire parole nella lingua che mi brucia dentro fin dall’infanzia, per sentirmi attraversata da una scossa silenziosa. “Spero di non rovinare la lingua di Dante.” Ha detto così. E in quella frase c’era tutto. C’era la distanza colmata, la deferenza gentile, l’eleganza antica che non chiede mai di essere notata ma resta incisa come il profilo in un cammeo. Non è idolatria, la mia. Non è il fascino cieco per corone e rituali. È piuttosto un’attrazione che nasce nei luoghi in cui la storia si piega alla grazia, dove la tradizione non è solo abitudine ma rito condiviso, gesti tramandati che danno forma all’invisibile. Ho sempre guardato la famiglia reale come si osserva una costellazione: da lontano, senza pretese, ma con la certezza che in quel disegno, in quelle traiettorie luminose, c’è qualcosa che parla di permanenza in un mondo che tutto consuma.
E poi, sentire Carlo, perdonatemi, RE Carlo, pronunciare l’italiano con quella cura, con quell’umiltà che profuma di rispetto, è stato come vedere una vecchia tela restaurata con mani leggere, che non cancellano il tempo ma ne evidenziano le venature. È stato come se, per un istante, la mia lingua non fosse solo un sistema di suoni e sintassi, ma un tempio antico in cui anche uno straniero sa entrare in punta di piedi. Mi sono emozionata. Un’emozione che non grida, non si agita. Che non chiede attenzione, ma resta lì, come un nodo nella gola, come un battito che rallenta. Perché c’è una nobiltà, una vera, che non si misura in titoli, ma in gesti di ascolto, in parole pronunciate senza pretese. E quella frase, detta così, senza arroganza, ha avuto per me la forza delle piccole rivoluzioni. Ho ripensato a quando, da bambina, guardavo le celebrazioni del Giubileo con occhi incantati, non per il potere, ma per la compostezza, per quel modo di muoversi nel mondo come se ogni passo fosse parte di una coreografia più grande, silenziosa, invisibile eppure reale. Non è nostalgia, la mia. È un bisogno antico di armonia, di bellezza che resiste. Un bisogno che non ha mai trovato spazio nel rumore di chi urla senza ascoltare. In quel momento ho visto nella lingua una patria, e in chi la onora, un complice. Perché sì, c’è qualcosa di sacro nelle parole. Non nei discorsi scritti per convincere, ma in quelli pronunciati con l’intenzione di non ferire, di non contaminare. È raro. È come sentire la neve cadere dentro una cattedrale: un silenzio pieno di senso, che non chiede di essere spiegato.
Non so perché mi abbia colpita così tanto, ma è rimasto con me. Quel modo di piegarsi alla bellezza di una lingua che non gli appartiene, eppure viene trattata come una reliquia. Quel gesto mi ha parlato più di mille proclami. In un’epoca in cui tutto viene semplificato, abbreviato, mutilato, sentire qualcuno scegliere la complessità di una lingua straniera, e farlo con rispetto, è stata una carezza sul volto della mia identità. È come se, per un momento, qualcuno avesse riconosciuto il mio mondo. Non solo la mia lingua, ma il mio modo di sentire, di pensare, di respirare. In quell’italiano imperfetto eppure sincero, ho trovato più verità che in tanti madrelingua che usano le parole come armi, come barriere, come slogan. E così sono rimasta lì, a guardare quell’uomo che porta sulla schiena secoli di eredità, chinarsi sulla lingua di Dante come si fa con qualcosa che si ama davvero. Non si ama ciò che si possiede, si ama ciò che si teme di spezzare. E c’era un tremore nella sua voce, un’incertezza quasi dolce, che mi ha fatto venire voglia di proteggere quel momento, di tenerlo con me. Come si conserva una lettera vecchia, consumata dai bordi, ma ancora piena di significato.
La verità è che ci sono istanti che non si spiegano. Si vivono, si attraversano, si lasciano sedimentare. E questo è stato uno di quelli. Un piccolo miracolo laico, un frammento di tempo in cui tutto ha avuto un senso, senza bisogno di essere spiegato. Forse è questo che cerco da sempre: quel momento in cui l’altro, anche se lontano, anche se divers, riesce a sfiorarmi senza invadere. Quel momento in cui le distanze si fanno lievi, e la voce di un RE diventa la voce del rispetto. Non ci sono applausi nella mia emozione. Solo un silenzio pieno, come quello che si prova davanti a qualcosa che si sa di non poter trattenere. E allora lo si lascia andare, ma lo si porta dentro. Come un respiro trattenuto, come una pagina che si chiude lasciando intravedere ancora la storia.
La porta resta socchiusa.
Sempre.
Reverence.
Remember me,
Eclipse