
L’eco di un cuore vuoto
Posted on April 7th, 2004 / Poesia / 40 Comments
Show me the meaning of being lonely
Is this the feeling I need to walk with?
Tell me why I can’t be there where you are
There’s something missing in my heart
Cammino senza scarpe, con il freddo che mi sale dalle piante dei piedi e mi attraversa fino alla nuca come un sussurro che non vuole farsi dimenticare. Il pavimento sotto di me non è solo freddo: è indifferente. Come tutto, come tutti. Ogni passo che compio ha il suono di un errore che si ripete, come le parole che ripassi a memoria per paura di scordarle, anche se sai che sarebbe meglio dimenticare. Fuori piove, e non è una pioggia che lava. È una pioggia che insiste. Che non smette. Una pioggia sottile, invisibile quasi, ma presente, come certi dolori che non fanno rumore eppure ti mangiano viva. L’aria è densa, sa di vetro chiuso e di tempo immobile. Sa di assenza. Il giradischi gira piano, lo accendo come si accende una candela in una stanza buia. La voce che riempie lo spazio non è solo una melodia, è un messaggio cifrato che capisco solo io. “Show me the meaning of being lonely”, sussurra, e tutto in me si tende come una corda di violino sull’orlo della rottura. C’è una solitudine che si insinua nelle ossa, che si fa pelle, che ti fa dimenticare il calore anche quando c’è il sole. Non è il vuoto a farmi paura. È la presenza muta di ciò che manca. È la forma del tuo nome che non pronuncio più, ma che ancora occupa spazio in ogni silenzio.
Il profumo del caffè è una carezza che non arriva alla pelle. Mi accompagna da lontano, come quei ricordi che non puoi toccare ma che non smettono di parlarti. Lo sorseggio lentamente, quasi con rabbia. È amaro, sì, ma non abbastanza. Avrei bisogno di qualcosa che brucia, qualcosa che lasci il segno. Guardo la pioggia, che disegna sentieri invisibili sul vetro, e mi domando se ogni goccia sia una parola non detta, un’assenza che si è fatta carne. La stanza è piena di oggetti che non parlano. Libri, quadri, vestiti sparsi, lettere mai spedite. Tutto tace. Tutto osserva. Mi muovo come una presenza estranea dentro la mia stessa casa. Apro il cassetto dove tengo la penna nera, quella con cui ho scritto tutto ciò che non ho mai avuto il coraggio di dire. Comincio a scrivere. Senza pensare, senza censura, senza la pretesa di costruire un senso. Le parole escono come sangue da una ferita aperta da troppo tempo. Sono frasi spezzate, immagini confuse, ma sono vere. Sono vive. E in qualche modo sono io.
Scrivere è l’unico modo che conosco per urlare senza spaventare nessuno. Scrivere è come cucire con le dita nude un cuore che si è strappato pezzo dopo pezzo. Ogni parola è un ago, ogni frase una ferita che si riapre per essere finalmente vista. Scrivo per ricordarmi chi sono. Perché a volte il riflesso nello specchio è così lontano da ciò che sento che mi sembra di guardare una sconosciuta. Eppure, da qualche parte, ci sono ancora io. Nascosta sotto i giorni vuoti, sotto le risate di circostanza, sotto le risposte che do quando non voglio spiegare. Sotto ogni parola scritta, c’è una voce che continua a cantare: “There’s something missing in my heart”. Lo ripete come un mantra, come una maledizione. E io la ascolto. E la accolgo. Perché sì, c’è qualcosa che manca. Qualcosa che non si compra, che non si chiede, che non si ottiene. Qualcosa che forse non ha mai avuto un nome. O forse ce l’ha, ma è quello che non voglio più pronunciare.
C’è un lampione acceso fuori dalla finestra, e la sua luce si rifrange nell’acqua stagnante di una pozzanghera. Mi avvicino. Mi guardo. Non mi riconosco. Eppure resto lì, a fissarmi. A cercare in quello sguardo tremolante un segno, una traccia, una direzione. Ma tutto si muove, tutto sfugge. E io resto. Immobile. Il mondo fuori sembra andare avanti, eppure ogni cosa pare sospesa. Come se il tempo avesse deciso di fermarsi solo per me. Le ore scorrono, ma io resto incastrata in quel preciso istante in cui ho smesso di aspettare. O forse ho solo smesso di crederci. E questo non fa rumore, non esplode. Si insinua. Ti cambia. Ti svuota. Ogni dettaglio che mi circonda è un appiglio e insieme un abisso. Il bicchiere lasciato mezzo pieno, la tenda leggermente scostata, il libro aperto a metà come una storia interrotta. E in ogni cosa sento un’eco, un ritorno. Come se tutto ciò che vedo mi ricordasse che manca qualcosa, che qualcosa si è perso e che non tornerà.
E non importa se qualcuno legge. Non importa se qualcuno capisce. Questo è un linguaggio segreto, fatto di battiti fuori tempo e respiri spezzati. È la mia lingua madre, quella che parla dritta alla parte più fragile di me. Quella che non chiede, non spiega, non implora. Ma racconta. Racconta il vuoto, la mancanza, la fame di senso. Scrivo per non annegare. Per tenere aperta la ferita. Perché finché fa male, allora vuol dire che sono viva. Finché scrivo, non sono scomparsa del tutto. Non c’è niente da concludere. Non c’è un messaggio, né una lezione. C’è solo questa corrente che mi attraversa e che non si ferma. Questa musica che continua anche quando la canzone è finita. Questo bisogno di restare, almeno in parte, dentro quello che sento. Dentro quello che non posso cambiare. Dentro tutto ciò che manca.
• remember me,
Eclipse •
Questa cosa della penna nera nel cassetto… mi ha fatto male. Mi ha fregato, come se sapessi anche tu che ho una scatola con lettere mai mandate e rabbia secca.
Le lettere non spedite hanno un odore preciso, quello del coraggio trattenuto. Ma anche della dignità. Scrivere è avere ancora voce, anche se nessuno la sente.
Sembra una lettera che ho scritto a me stessa e non ho mai avuto il coraggio di leggere.
A volte serve leggere le parole altrui per trovare il coraggio di ascoltare le proprie. È un passaggio segreto. Un sussurro comune.
È tutto un sogno a occhi aperti. Ma di quelli che non ti fanno dormire più. Il tuo vuoto ha fatto rumore dentro di me.
Il vuoto, quando è autentico, fa più rumore del pieno. Non sveglia, ma ricorda. E ci tiene lì. A galleggiare.
“Scrivere per non annegare.” E io che pensavo di saper nuotare. Invece sono solo brava a fingere.
Fingere è una forma di sopravvivenza. Ma scrivere è un atto di verità. Anche quando tremano le mani. Anche quando si fa male.
Sai cosa manca davvero? La capacità di restare zitti davanti a qualcosa di così vero. E invece sono qui a scrivere, perché non riesco a far finta di niente.
Chi scrive lo fa per necessità. Perché il silenzio sarebbe troppo pieno. Troppo rumoroso. La verità chiama sempre risposta. Anche solo un respiro.
Mi dà fastidio quanto mi ha colpito. Perché non volevo farmi toccare. Ma certe frasi sono lame, e tu le sai usare bene.
Scrivere è accettare di ferire. Ma anche di aprire. Se qualcosa ha inciso, allora forse valeva la pena sentirlo.
Tutto troppo esatto. Troppo chirurgico. Hai inciso la parte che di solito evito. E adesso non so se ringraziarti o odiare questa lucidità.
La verità non chiede permesso. A volte ci taglia mentre cerchiamo di accarezzarla. Ma è solo così che smette di essere astratta.
Mi ha fatto pensare a un disegno di Bilal, una figura femminile sola in un paesaggio postatomico. La poesia del decadere. Il bisogno di restare.
C’è una bellezza struggente nel decadimento. Un’estetica dell’assenza. Forse perché ciò che si sgretola, finalmente mostra cosa resta.
Ho riletto tre volte l’ultima frase. “Finché scrivo, non sono scomparsa del tutto.” E ho iniziato a scrivere anch’io. Solo per ricordarmi che ci sono.
È in quel gesto, nel movimento dell’inchiostro sulla pelle della pagina, che comincia il ritorno. Non si scompare se si lascia traccia. Anche una minuscola.
Non so se voglio continuare a leggere, ma non riesco a smettere. È come guardare un tramonto troppo rosso. Bello. Ma doloroso.
Ci sono bellezze che graffiano. Eppure ci restiamo davanti. Perché ci ricordano che sentire fa ancora parte dell’essere vivi.
Sembrava una canzone muta, eppure l’ho sentita tutta. Certe parole si ascoltano con la pelle.
Alcuni testi non hanno bisogno di voce. Vibrano da soli, entrano nei pori, diventano parte del battito.
C’è qualcosa nel modo in cui parli del vuoto che non mi fa più paura. Come se fosse abitabile. Come se fosse anche mio.
Il vuoto ci tiene compagnia più spesso di quanto ammettiamo. Ma abitarlo con le parole lo rende meno feroce. E più umano.
Non so se è la pioggia fuori o le tue parole, ma sento addosso il freddo che descrivi. E mi sento a casa, paradossalmente. Come se fossi entrata in una stanza piena del mio stesso silenzio.
Quel silenzio che riconosci è lo stesso in cui mi perdo da anni. È una lingua madre, sì. Una casa scomoda, ma nostra. Grazie per il tuo passaggio, Alexiel.
Mi hai fatto venire voglia di disfare la valigia. Di restare ferma. Di sentire tutto fino in fondo.
Non c’è viaggio più radicale di quello che facciamo restando. Il movimento dentro la stasi è il più feroce.
Brucia. Sì. Hai detto proprio così, e io lo sento. Questo post è come bere qualcosa di forte, di troppo forte, che ti lascia la gola in fiamme e il petto più leggero.
Scrivere è bere veleno per sopravvivere al veleno. È trasformare il bruciore in significato. Lo sento, Aly. Il tuo silenzio che grida, lo sento.
Hai mai guardato il tuo riflesso in un vetro bagnato dalla pioggia? Non vedi nulla. Ma continui a guardare. Ecco, sei riuscita a scriverlo.
Sì. Continuo a guardare anche quando tutto si dissolve. Perché forse è lì che resta qualcosa. Forse è lì che si capisce davvero.
Io ho sempre pensato che il silenzio fosse il contrario della musica. Tu mi hai fatto capire che è solo la sua ombra.
Ogni silenzio è una nota trattenuta. Un’eco che non ha bisogno di suono per farsi sentire. L’hai ascoltato. L’hai capito.
Tu dici che non cerchi un messaggio, ma io l’ho trovato. È nascosto nel battito spezzato delle frasi. È come se ogni parola dicesse: “Sopravvivi”.
A volte non serve spiegare. Basta lasciare che le parole respirino da sole. Se qualcosa arriva, è perché già viveva dentro chi legge.
Mi fa paura quanto mi riconosco in ogni frase. È come se stessi leggendo un pensiero che ho dimenticato di scrivere. Mi sento meno stupida adesso. Solo più vera.
La verità spesso ha il volto di qualcosa che ci mette a disagio. Eppure è lì che pulsa il centro. Grazie per aver avuto il coraggio di restare in quello specchio.
È tutto uno specchio infranto. Un gioco di riflessi distorti. Ma tra i frammenti ho visto una parte di me. Quella che fingo di non avere.
I frammenti sono più sinceri dello specchio intero. Ti mostrano sfaccettature che la superficie liscia nasconde. È lì che ci ritroviamo, tra le crepe.