Show me the meaning of being lonely
Is this the feeling I need to walk with?
Tell me why I can’t be there where you are
There’s something missing in my heart
Cammino senza scarpe, con il freddo che mi sale dalle piante dei piedi e mi attraversa fino alla nuca come un sussurro che non vuole farsi dimenticare. Il pavimento sotto di me non è solo freddo: è indifferente. Come tutto, come tutti. Ogni passo che compio ha il suono di un errore che si ripete, come le parole che ripassi a memoria per paura di scordarle, anche se sai che sarebbe meglio dimenticare. Fuori piove, e non è una pioggia che lava. È una pioggia che insiste. Che non smette. Una pioggia sottile, invisibile quasi, ma presente, come certi dolori che non fanno rumore eppure ti mangiano viva. L’aria è densa, sa di vetro chiuso e di tempo immobile. Sa di assenza. Il giradischi gira piano, lo accendo come si accende una candela in una stanza buia. La voce che riempie lo spazio non è solo una melodia, è un messaggio cifrato che capisco solo io. “Show me the meaning of being lonely”, sussurra, e tutto in me si tende come una corda di violino sull’orlo della rottura. C’è una solitudine che si insinua nelle ossa, che si fa pelle, che ti fa dimenticare il calore anche quando c’è il sole. Non è il vuoto a farmi paura. È la presenza muta di ciò che manca. È la forma del tuo nome che non pronuncio più, ma che ancora occupa spazio in ogni silenzio.
Il profumo del caffè è una carezza che non arriva alla pelle. Mi accompagna da lontano, come quei ricordi che non puoi toccare ma che non smettono di parlarti. Lo sorseggio lentamente, quasi con rabbia. È amaro, sì, ma non abbastanza. Avrei bisogno di qualcosa che brucia, qualcosa che lasci il segno. Guardo la pioggia, che disegna sentieri invisibili sul vetro, e mi domando se ogni goccia sia una parola non detta, un’assenza che si è fatta carne. La stanza è piena di oggetti che non parlano. Libri, quadri, vestiti sparsi, lettere mai spedite. Tutto tace. Tutto osserva. Mi muovo come una presenza estranea dentro la mia stessa casa. Apro il cassetto dove tengo la penna nera, quella con cui ho scritto tutto ciò che non ho mai avuto il coraggio di dire. Comincio a scrivere. Senza pensare, senza censura, senza la pretesa di costruire un senso. Le parole escono come sangue da una ferita aperta da troppo tempo. Sono frasi spezzate, immagini confuse, ma sono vere. Sono vive. E in qualche modo sono io.
Scrivere è l’unico modo che conosco per urlare senza spaventare nessuno. Scrivere è come cucire con le dita nude un cuore che si è strappato pezzo dopo pezzo. Ogni parola è un ago, ogni frase una ferita che si riapre per essere finalmente vista. Scrivo per ricordarmi chi sono. Perché a volte il riflesso nello specchio è così lontano da ciò che sento che mi sembra di guardare una sconosciuta. Eppure, da qualche parte, ci sono ancora io. Nascosta sotto i giorni vuoti, sotto le risate di circostanza, sotto le risposte che do quando non voglio spiegare. Sotto ogni parola scritta, c’è una voce che continua a cantare: “There’s something missing in my heart”. Lo ripete come un mantra, come una maledizione. E io la ascolto. E la accolgo. Perché sì, c’è qualcosa che manca. Qualcosa che non si compra, che non si chiede, che non si ottiene. Qualcosa che forse non ha mai avuto un nome. O forse ce l’ha, ma è quello che non voglio più pronunciare.
C’è un lampione acceso fuori dalla finestra, e la sua luce si rifrange nell’acqua stagnante di una pozzanghera. Mi avvicino. Mi guardo. Non mi riconosco. Eppure resto lì, a fissarmi. A cercare in quello sguardo tremolante un segno, una traccia, una direzione. Ma tutto si muove, tutto sfugge. E io resto. Immobile. Il mondo fuori sembra andare avanti, eppure ogni cosa pare sospesa. Come se il tempo avesse deciso di fermarsi solo per me. Le ore scorrono, ma io resto incastrata in quel preciso istante in cui ho smesso di aspettare. O forse ho solo smesso di crederci. E questo non fa rumore, non esplode. Si insinua. Ti cambia. Ti svuota. Ogni dettaglio che mi circonda è un appiglio e insieme un abisso. Il bicchiere lasciato mezzo pieno, la tenda leggermente scostata, il libro aperto a metà come una storia interrotta. E in ogni cosa sento un’eco, un ritorno. Come se tutto ciò che vedo mi ricordasse che manca qualcosa, che qualcosa si è perso e che non tornerà.
E non importa se qualcuno legge. Non importa se qualcuno capisce. Questo è un linguaggio segreto, fatto di battiti fuori tempo e respiri spezzati. È la mia lingua madre, quella che parla dritta alla parte più fragile di me. Quella che non chiede, non spiega, non implora. Ma racconta. Racconta il vuoto, la mancanza, la fame di senso. Scrivo per non annegare. Per tenere aperta la ferita. Perché finché fa male, allora vuol dire che sono viva. Finché scrivo, non sono scomparsa del tutto. Non c’è niente da concludere. Non c’è un messaggio, né una lezione. C’è solo questa corrente che mi attraversa e che non si ferma. Questa musica che continua anche quando la canzone è finita. Questo bisogno di restare, almeno in parte, dentro quello che sento. Dentro quello che non posso cambiare. Dentro tutto ciò che manca.
• remember me,
Eclipse •