Cercavo un rifugio tra le pagine, l’altra sera, quando sono entrata in libreria. Qualcosa che placasse il mio sentirmi barcollante e triste, che avesse la dolcezza di un tè caldo per l’anima.Ho lasciato che le dita scivolassero lungo i dorsi, sfiorando titoli, colori, promesse. C’era un odore di carta nuova e d’inchiostro, e un silenzio carico di attese. Ho camminato senza fretta tra gli scaffali, cercando senza sapere cosa. Qualcosa che mi prendesse per mano senza strattonarmi, che mi accompagnasse senza impormi una direzione. Qualcosa che mi dicesse: “Ti capisco.” Mi sono fermata davanti ad una copertina dal colore incerto, tra il bianco e il grigio, con un titolo che suggeriva una storia dolceamara. L’ho preso, l’ho aperto a caso, ho letto una frase, due, tre. Mi ci sono infilata dentro come si entra in una casa sconosciuta, con passo cauto ma speranzoso. Il mondo intorno si è ritirato, la luce gialla della libreria si è fatta morbida ai margini, ed io ho sentito il sollievo sottile di chi ha trovato un rifugio.
Le parole scorrevano come un fiume calmo, senza ostacoli, senza interruzioni. Ogni frase conduceva alla successiva con una naturalezza inevitabile, senza sbavature, senza forzature. Non c’era bisogno di fermarsi, non c’era bisogno di tornare indietro. Tutto fluiva, tutto si svolgeva davanti a me come una strada che si srotola sotto i piedi senza fare domande. Ho sentito la pelle che si rilassava, le spalle che lasciavano andare un peso che nemmeno sapevo di portare. Era la storia giusta. Non perfetta, non risolutiva, ma giusta per quella sera, per quel momento in cui non volevo risposte ma solo il suono di un pensiero che si fa spazio, che si allunga, che respira. Ho lasciato che le parole mi accarezzassero, che le immagini si insinuassero nella mente senza urgenza. Una finestra aperta su un paesaggio sconosciuto, una donna che cammina in una città avvolta nella nebbia, il suono lontano di un treno che parte. Scene che non mi appartenevano eppure si incastravano dentro di me con la naturalezza di un ricordo che riaffiora. Ho sentito il freddo dell’aria umida sulla pelle, il battito lieve della pioggia contro i vetri, il profumo di terra bagnata. Ogni dettaglio era esatto, necessario. Nessuna parola di troppo, nessuna ridondanza.
L’ho chiuso per un istante, tenendo il segno con un dito, e ho alzato lo sguardo. La libreria era ancora lì, con le sue luci soffuse e il mormorio discreto di chi cercava storie come me. Eppure, qualcosa era cambiato. Il mondo sembrava un po’ meno ruvido, il peso sulla gabbia toracica un po’ meno pressante. Mi sono chiesta perché. Forse perché avevo trovato le parole giuste, o forse perché non le cercavo più con disperazione, ma con la tranquilla certezza che sarebbero arrivate, una dopo l’altra, senza sforzo. Ho portato il libro alla cassa, ho sorriso a chi me lo porgeva in un sacchetto di carta. Sono uscita nella sera umida, con il tepore della storia ancora addosso. E ho pensato che, in fondo, non c’è bisogno di molto. A volte basta un filo di parole che scivolano senza inciampi, un pensiero che si stende senza fretta, un respiro che non si spezza. Basta sapere che da qualche parte esiste sempre una storia che ti aspetta, pronta a posarsi accanto a te, senza chiedere nulla, senza forzare nulla, senza promettere altro che la propria esistenza. E forse è proprio questo che cercavo.
Solace.
Remember me,
Eclipse