È strano come una sola parola, un gesto, possa stravolgere tutto ciò che pensavamo fosse chiaro. Il pomeriggio è piuttosto grigio, ma c’è un calore insolito nell’aria, un’energia che non si può definire, come se fosse tutto sospeso, pronto a precipitare. H. e S. camminano avanti a me, immersi nella solita spensieratezza, eppure qualcosa di indefinito si fa strada, silenzioso. Entriamo nella sala giochi, «Las Vegas», e tutto il mondo fuori si dissolve. Le luci, il suono metallico delle monete, le risate che si mescolano al frastuono degli schermi, sono un rifugio, un microcosmo che ci isola da tutto il resto. In questo spazio, il tempo non ha confini. Poi arriva il momento. Un attimo che tutto cambia. S. torna dal bagno, la faccia pallida come la luce che entra dalle vetrate, ma non è la luce che la fa sembrare così. È quello che ha visto, quel muro, la scritta. Non posso fare a meno di notarlo, ma sono lenta nel metabolizzarlo. Non mi aspettavo di sentire quelle parole. Non le aspettavo. S. le fissa, le scansiona con uno sguardo che perfora l’aria, e poi, senza preavviso, si volta verso di me. «Sei stata tu!» urla. Le parole mi colpiscono con la forza di uno schiaffo.
La musica intorno ci travolge, ma la sua voce, quella, è cristallina. Mi guarda come se avessi commesso un crimine. Non c’è alcun dubbio, per lui, è chiaro come il giorno. Non c’è spazio per domande, né per chiarimenti. La mia innocenza si sgretola sotto il peso di quel punto di domanda che mi viene lanciato senza pietà. «Perché dovrei fare una cosa simile?» riesco a dire, ma la mia voce si perde nel caos. La domanda, in sé, non ha alcun valore. Perché non è una domanda che chiede una risposta. È un muro che si erge tra di noi, e nulla lo scalfisce. Il silenzio che segue pesa più di mille parole. Eppure non mi arrendo. Propongo di confrontare la scritta. Lui non risponde, rifiuta, come se fosse una questione già risolta. Mi dice che non importa, che la verità è già stata scritta, e che non cambierà nulla. È tutto finito.
La rabbia mi sale come un fuoco che non avevo mai sentito. Non è la rabbia per l’accusa, ma per la comprensione di qualcosa che sfugge. Mi guardo intorno. H. resta distante, immobile, come se stesse guardando una scena che non ha nulla a che fare con lui. Il suo volto è vuoto, e io lo guardo, ma non ci trovo nulla. L’indifferenza che mi restituisce è peggio di ogni parola. Non lo capisco. Non capisco nulla. La mia mente è confusa, ma più di tutto sono triste. Perché, in qualche modo, quello che stiamo vivendo è un test, e nessuno di noi lo sta superando. B. si fa beffe della situazione, come se fosse tutto uno spettacolo. Non lo guardo nemmeno. La sua risata è lontana, fuori posto, come se fosse lui il vero spettatore di questa tragica commedia. La sua indifferenza mi ferisce più delle parole di S., e capisco che in questa sala non siamo solo amici, siamo individui smarriti, in cerca di una risposta che nessuno di noi vuole davvero sentire.
Esco dalla sala, ma prima di andare via, mi volto. Voglio vedere di nuovo quel muro. Ma non lo vedo. Non c’è più. La scritta non è più il punto di riferimento, il segno tangibile di un errore che non ho commesso. Non è la scritta che mi turba, ma ciò che lascia dietro di sé. Una relazione, un’amicizia che si è sfaldata come polvere, e noi siamo lì, incapaci di ricomporla. Quanto è fragile ciò che crediamo di conoscere degli altri? Quanto possiamo davvero capire di una persona, quando le parole non bastano? E quanto siamo disposti a perdere prima di capire che, a volte, non c’è nulla da fare? Un pensiero che resta sospeso, come il ricordo di un cuore che batte, ma senza mai trovare una risposta.
THE END.
Remember me,
Eclipse.