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La logica controcorrente umana

I numeri non mentono, ma le emozioni sanno manipolare. Tra l’essere e il calcolo c’è l’abisso, un vuoto che si fa largo con ogni respiro, come il suono di un battito che si fa strada tra il silenzio della mente. La stanza intorno a me è immersa in una luce pallida, fredda, che proviene da uno schermo che sembra non voler mai smettere di emettere la sua luce. È un’illuminazione artificiale che, piuttosto che rischiarare, ruba calore, lasciando solo il freddo che taglia l’aria, solitaria e impassibile. La polvere digitale è il suo compagno, un ricordo di ciò che era e non è più, un simbolo di un mondo che continua a correre senza fermarsi, mentre io mi fermo a riflettere. Scrivo, cancello, riscrivo. Ogni parola una battaglia, ogni frase una ferita aperta, ma non posso fare a meno di scrivere. Non posso fare a meno di scavare, come se solo in questo modo potessi respirare. Fuori dalla finestra, Milano è una tela di ombre, un dedalo di luci tremolanti che non sanno dove andare, come il pensiero che mi attraversa. Dentro, la battaglia è silenziosa, ma brucia. La mente è un campo minato, dove ogni passo che faccio rischia di innescare un’esplosione che scuote tutto. Perché siamo così imperfetti? Perché tutto ciò che tocchiamo sembra spezzarsi, come se la fragilità fosse parte del nostro DNA, il nostro destino inevitabile, il nostro marchio di fabbrica? Passo una mano tra i capelli, la testa pesante, l’anima più di mille volte più stanca di quanto le mani possano dire. Sto cercando una risposta che non trovo, ma non riesco a smettere di cercarla. La fiducia, penso, è il punto di incontro tra logica e cuore, tra ciò che possiamo spiegare e ciò che ci sfugge ogni volta che cerchiamo di afferrarlo.

La razionalità, quella fede cieca nei numeri, nelle formule, nelle regole che ci definiscono, non riesce a risolvere ciò che siamo. Non può spiegare il movimento del cuore, l’imprevedibile danza dell’emozione che ci travolge e ci plasma. Eppure, continuo a cercare di ridurre tutto a un’equazione, a un codice che, se eseguito correttamente, non fallisca mai. Ma il mondo fuori non è un programma, eppure non so come fare per non cercare di farlo diventare tale. Ogni volta che incontro l’imperfezione, mi sento tradita. Eppure, mi trovo qui, a scrivere di nuovo. Mi alzo dalla scrivania, il corpo che si solleva lentamente come una macchina che ha bisogno di riavviarsi. La cucina è fredda, ma non me ne importa. Mi avvicino al teiera, quella vecchia, a forma di cerchio, che sa di storia e di promesse. Verso l’acqua, il calore che sale come un respiro profondo, un atto di vita che si rinnova. Mescolo il tea con una lentezza che sembra voler fermare il tempo, come se ogni gesto fosse il mio unico ancoraggio al mondo. Mi consolo in questo rituale, nel sapore familiare che ogni tazza porta con sé. Almeno, in questo, trovo qualcosa di sicuro. Almeno qui, il tea caldo non tradisce mai. Tornata alla scrivania, mi soffermo su un dettaglio. Una piccola scheggiatura sul bordo del mouse. Un difetto che potrei non aver mai notato se non fossi stata così attenta a ogni piccola cosa che mi scivola sotto le dita. Quante volte l’ho usato senza mai fermarmi a guardarlo davvero? Eppure, in quella fessura, c’è qualcosa di perfetto, qualcosa che mi parla. Non è forse questa la natura umana? Un difetto che ci rende unici, ma che non possiamo mai ignorare? Eppure, non basta. Non dovrebbe bastare. Nella mia vita, ho cercato risposte a tutto. Ho cercato la perfezione in un mondo che non la conosce. Le persone, così imperfette, così vulnerabili, così reali. Le ho guardate cercando di trovarne la giustizia, ma ogni volta mi sono trovata di fronte a un muro che non posso abbattere. Mi sono chiesta, spesso, se fosse possibile perdonarle. Il perdono… una scelta logica, mi dicono. Ma è davvero così semplice? Non è forse un’anomalia nel sistema, qualcosa che non segue la stessa linea retta che cerco di tracciare nella mia mente? Perché dovremmo, in fondo, lasciare che un errore passi inosservato, come se nulla fosse mai accaduto? Come se fosse possibile cancellarlo, come una variabile che non serve più?

Il tea caldo si esaurisce, eppure il silenzio nella stanza è assordante, la sua presenza più forte di qualsiasi rumore. Chiudo gli occhi, un attimo di respiro. Il ronzio del computer mi riporta al mondo, eppure, in quel suono c’è la rassicurante costanza delle cose che funzionano. Ogni calcolo, ogni esecuzione, ogni comando segue la sua logica, immutabile. Ma fuori è il caos. E io mi trovo a camminare tra questi due mondi, sospesa, in bilico, come una funambola su un filo troppo sottile. E in quel momento, una frase mi attraversa, rapida come un lampo: «Forse il problema non è nelle persone, ma nelle mie aspettative». La frase si posa dentro di me, ma subito lascia un’ombra, come una crepa che non posso ignorare: è davvero possibile trovare un equilibrio tra la logica e l’imprevedibilità umana? Il mondo non segue le regole che vorrei imporre. Non importa quanto ci proviamo, non importa quanto cerchiamo di razionalizzare ciò che siamo. I numeri possono spiegare il mondo, ma non possono sentirlo. Non possono respirarlo. E io, cosa posso fare? Posso ancora trovare un senso in questo continuo contrasto tra ciò che vorrei essere e ciò che sono realmente? La domanda rimane sospesa, la risposta lontana. Un’equazione senza soluzione, un’altra che non si può risolvere, perché la perfezione non esiste. È forse questa l’unica verità che posso portare con me? Se non c’è perfezione, possiamo mai veramente accettare l’imperfezione? La domanda resta, immobile e silenziosa, come una domanda che non ha mai fine, che non smette mai di vivere dentro di me.

Soddisfazione = Risultato Reale ÷ Aspettativa
10 ÷ 1 = 10 → la soddisfazione esplode
perché non aspettarsi nulla a volte è la chiave della meraviglia.

Remember me,
Eclipse

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