La vita non ti avvisa mai. Ti attraversa, ti colpisce, ti lacera senza preavviso, senza un segnale. E quando accade, non c’è un modo per difendersi. Non puoi prevederlo, non puoi evitarlo. Ti scava dentro come una lama sottile e silenziosa, lasciando solo il vuoto e la consapevolezza di non essere mai davvero preparata. Ti guardi intorno, cerchi un appiglio, un indizio che possa spiegare il momento esatto in cui tutto è cambiato, ma non lo trovi. Perché non c’è. Ci camminiamo accanto ogni giorno, illudendoci che il controllo sia reale, che basti prevedere, pianificare, evitare gli ostacoli per restare in piedi. Ma poi accade. In un gesto. In una parola non detta. In un battito di ciglia.
Quel giorno, con T., credevo di avere tutto sotto controllo. Le strade affollate, il frastuono del traffico, le voci confuse della città: tutto si dissolveva sullo sfondo, come una nebbia sottile che avvolge ogni cosa. E dentro di noi, solo la certezza di quel momento, la convinzione che nulla potesse spezzarlo. Ma il cielo grigio ci ha traditi. Ci ha lasciati esposti, fragili, impreparati. Non c’è stato un avviso, non c’è stato un presagio. Solo un istante che si spezza, un equilibrio che si frantuma senza rumore. Il suo tocco sul mio polso. Un gesto insignificante, un contatto qualunque. Eppure, qualcosa si è spezzato dentro di me. Qualcosa di primitivo, di insopportabile. Il suo sguardo, un’ombra fugace che ha attraversato il suo volto. Poi il bacio. Freddo, forzato, invadente. Non era desiderio. Non era amore. Era una presa di potere. Un istante sospeso tra il prima e il dopo. E poi la mia reazione. Lo schiaffo, il gesto che si stacca da me prima ancora che possa pensarlo, prima ancora che possa capirlo. La pelle che incontra la pelle con un suono sordo, una scheggia di realtà che squarcia il silenzio. La paura che arriva subito dopo, il battito accelerato, il respiro che si spezza. E il vuoto. Il vuoto che si allarga tra noi, che inghiotte ogni cosa. Le sue parole arrivano come un eco lontano, scuse, spiegazioni, tentativi goffi di dare un nome a ciò che non ha nome. Ma non bastano. Non possono bastare. Il peso di ciò che è successo è già inciso nella pelle, nei muscoli, nelle ossa.
Mi allontano. Cammino veloce, senza guardarmi indietro, ma sento ancora il bruciore sulle dita, il segno di un confine che ho dovuto tracciare con la carne. Le strade si aprono davanti a me, il rumore della città torna a riempire lo spazio che prima sembrava lontano. Ma dentro di me, solo il silenzio. Un silenzio assordante, pesante. La vergogna mi avvolge, mi stringe come una seconda pelle. Perché non riesco a capire se sto piangendo per me, per lui, o per il semplice fatto che qualcosa si è spezzato e non tornerà mai più come prima. Mi rifugio nella mia solitudine. Le pareti della stanza sono fredde, lontane. La finestra lascia entrare una luce pallida, crudele. Il mondo fuori continua, ignaro di ciò che si è spezzato dentro di me. Il mio riflesso nello specchio mi osserva, muto, senza risposte. Gli occhi gonfi, le labbra serrate. Non riconosco il volto che ho davanti. Il respiro si fa corto, il cuore accelera. E il vuoto si espande ancora. I pensieri si accavallano, si intrecciano, si perdono in un labirinto senza uscita. Cerco di afferrarli, di dare loro un senso, ma scivolano via, si dissolvono prima ancora che io possa comprenderli. La frustrazione è un nodo alla gola, un peso sul petto che non riesco a sollevare. Le immagini della giornata si ripetono nella mia mente, come un film inceppato. Il suo sguardo. Il suo tocco. Il momento esatto in cui ho capito che qualcosa non sarebbe mai più stato lo stesso.
La luce si rifrange sulla polvere sospesa nell’aria, trasformando ogni granello in un minuscolo frammento di universo. Osservo il gioco di luci e ombre sul muro, la linea sottile di una crepa invisibile. E in quella crepa vedo me stessa. Una frattura impercettibile, ma inarrestabile. Non si torna indietro. Non si ricuce ciò che è già andato in pezzi. Rimane solo il tentativo disperato di raccogliere ciò che resta, di trovare un modo per continuare a camminare. Le ore passano. La notte avvolge la stanza. Le ombre si allungano sulle pareti, si fondono con i miei pensieri. La stanchezza mi pesa addosso, ma non riesco a chiudere gli occhi. Rimango così, immobile, intrappolata nel limbo tra il sonno e la veglia, tra il passato e il presente. Non cerco risposte. Non cerco redenzione. Solo il tempo. Solo il lento, inesorabile fluire di ciò che è stato e di ciò che sarà. E poi, infine, il respiro si fa più calmo. Non per pace, non per sollievo. Ma per necessità. Perché l’aria deve entrare nei polmoni, deve riempire il vuoto che mi abita. Anche se fa male. Anche se non ha senso. Anche se non porta con sé nessuna promessa. Resta solo il movimento. Resta solo il battito incessante del cuore, il flusso inarrestabile del tempo. La crepa nel muro resta, ma il sole sorgerà comunque. E io sarò ancora qui, a respirare.
THE END.
Remember me,
Eclipse