Ci sono verità che pesano più delle bugie, e silenzi che fanno più rumore di qualsiasi parola. Lo capisci solo quando il silenzio si fa materia, quando si insinua tra le pieghe di una giornata che sembrava innocua, semplice, persino felice. Era una mattina di primavera che sapeva d’estate, con l’odore della brezza che saliva dal mare e si confondeva con quello delle magnolie in fiore. Ma io sentivo un fremito, qualcosa che si muoveva sotto pelle, come una febbre che non ha ancora nome. Un presagio sordo, inspiegabile, che non urlava ma non taceva. C’era nell’aria quel tipo di calma che precede il crollo, eppure nessuno avrebbe potuto prevedere dove e quando avrebbe tremato il terreno sotto i piedi. T. ed io ci eravamo dati appuntamento per un pomeriggio che avrebbe dovuto sciogliere i pensieri, dissolvere i nodi, ridare respiro alla leggerezza che avevamo perso senza accorgercene. Ma il cuore sa sempre prima della mente, e anche quando fingi di non sentire, lui continua a battere con la voce di ciò che taci. A Nervi, lungo quel tratto di lungomare che ho sempre associato a qualcosa di perduto, camminavamo uno accanto all’altra, sfiorandoci appena, come se il contatto diretto fosse un pericolo, come se bastasse un tocco in più per far crollare tutto. Il profumo delle cialde calde si mischiava a quello del sale, e io mi fermavo di tanto in tanto ad osservare il mare, che quel giorno sembrava inquieto, come se anch’esso sapesse. La fila davanti alla gelateria era breve ma bastava a creare quel tempo sospeso in cui non puoi fare altro che pensare. T. parlava poco, e quando lo faceva lo faceva con quel tono basso e profondo che sembrava uscito da una notte troppo lunga. Aveva quel modo di guardarmi che mi faceva sentire nuda, esposta, come se ogni mia emozione fosse scritta sulla pelle e lui fosse l’unico a saperla leggere.
Poi, seduti su una panchina che sapeva di salsedine e confidenze mai dette, con i gelati tra le mani, il mio era un assurdo mix di cioccolato fondente e limone, il suo un pistacchio che sembrava sabbia e fragola che sapeva di qualcosa che non c’era: lui ha detto il mio nome. Lo ha detto come si pronuncia una ferita. Alice. Un nome, una lama, una carezza che taglia. E poi quella frase. Tu… sei gelosa di me e di lei? Come se il mondo, in quell’istante, avesse smesso di ruotare. Come se tutte le onde si fossero ritirate, come se ogni suono si fosse congelato. L’ho sentita prima ancora che arrivasse, quella domanda. Era nell’aria, nei suoi occhi, in quel modo in cui aveva stretto la bocca un attimo prima. Ma sapere che qualcosa sta per accadere non rende meno doloroso l’impatto. La risposta è uscita da sola, con una velocità che non mi apparteneva. No. Assolutamente no. L’ho detto con quella risata nervosa che si usa per coprire le crepe, per mascherare le paure, per dissimulare la verità. L’ho detto con la leggerezza di chi non vuole che l’altro ascolti davvero. Eppure dentro, in quel preciso istante, qualcosa si è rotto. Come una corda troppo tesa, come un vetro già incrinato che decide di cedere. Ho visto il suo sguardo cambiare, distogliersi, tornare altrove. Forse era deluso. Forse sperava in una risposta diversa. Forse era solo stanco di fingere che non ci fosse un abisso tra le nostre parole. Il gelato mi si è sciolto tra le dita, lasciando un sapore amaro che non avevo previsto. Era il sapore del rimorso, della consapevolezza, del tempo che passa senza fermarsi.
Ci siamo alzati, come se nulla fosse accaduto, e abbiamo iniziato a camminare, senza una meta, senza un perché. Ogni passo era un modo per allontanare quello che era stato detto, o forse per avvicinarci a qualcosa che non riuscivamo a dire. Il cielo si era tinto di un arancio tenue, una malinconia che si rifletteva sul mare in un tremolio lento e persistente. Io parlavo, ridevo, riempivo i vuoti con parole che non avevano peso, ma dentro di me ogni frase era un muro, un modo per non crollare. Perché avevo mentito? Perché era più facile così. Perché l’orgoglio, a volte, è un’armatura che pesa, ma che protegge. Perché la verità avrebbe significato spogliarmi, mostrarmi debole, esposta, fragile. E io non volevo. Non potevo. Il cammino del ritorno aveva il sapore di una fine non detta. Le luci della sera accendevano riflessi sul mare scuro, e in quel riflesso ho visto tutti i segreti che non avevamo avuto il coraggio di confessarci. Ho visto il peso delle parole non dette, l’inganno dolce delle mezze verità, la fragilità dei legami che si aggrappano a silenzi troppo pieni. Il profumo della frittura che veniva dai vicoli si mescolava a quello della nostalgia, creando una vertigine che non si poteva raccontare. Ho pensato alla sincerità come a un’arma a doppio taglio. A volte salva, a volte distrugge. Ma quando menti a te stessa, lo senti. Lo senti nei sogni che non fai più, nei sorrisi che non ti appartengono, negli abbracci che non scaldano.
E mentre T. camminava accanto a me, distante anche se vicino, ho sentito che non era solo una questione di gelosia, non era solo una donna di mezzo. Era qualcosa di più profondo. Era la paura di perdersi, la paura di sentirsi troppo, la paura di essere quella che prova più dell’altro. Ed è in quel momento che ho capito che non esiste una verità assoluta, ma solo una moltitudine di verità che si scontrano, che convivono, che lottano per sopravvivere in uno spazio che non le può contenere tutte. Ho continuato a camminare, lasciando che il silenzio parlasse per me. Non avevo più voglia di fingere, ma nemmeno il coraggio di mostrarmi. E così è finita, o forse no. Perché le cose non finiscono mai davvero. Restano sospese, restano in bilico, restano a metà. Come quella panchina vuota sul lungomare. Come quel gelato lasciato a sciogliersi senza fretta. Come il riflesso delle luci che tremano sull’acqua e non sanno se affondare o brillare.
THE END.
Remember me,
Eclipse