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Ferite invisibili, abbracci universali

A volte il mondo si sgretola all’improvviso, senza un avviso, senza una crepa che ne annunci il cedimento. Eppure crolla. Si affloscia come un palazzo sventrato, lasciando dietro di sé solo polvere, macerie e un’eco sorda che si insinua tra i pensieri, scavando cunicoli dove si annida il dolore. Lo senti addosso anche se sei lontana, anche se sei al sicuro, anche se non ti tocca direttamente. Lo senti, e basta. E non se ne va. Siedo davanti alla televisione. Lo schermo trasmette immagini in sequenza, come colpi. Il volume è basso, ma è come se urlasse. Ogni parola attraversa l’aria come una scheggia. Bombe. Stazioni. Sangue. Madrid. Le voci dei giornalisti si rincorrono, si sovrappongono, si frantumano l’una sull’altra. Un collage di dolore confezionato per essere digerito in pochi minuti. Ma io non digerisco. Io sento ogni sillaba come un pugno, ogni immagine come una lama. Le notizie arrivano veloci, troppo veloci, e lasciano dietro di sé una scia di silenzio. Il caffè sul tavolo si è raffreddato, ma continua a emanare un profumo che si confonde con l’odore del legno, della casa, della routine. Un odore che tenta, invano, di ricordarmi che la vita va avanti, anche quando tutto intorno sembra crollare. Fuori, Milano è muta. Una città che respira piano, come se anche lei sapesse che altrove il cuore del mondo ha smesso di battere. Le immagini scorrono e io non riesco a distogliere lo sguardo. Volti spaventati, corpi coperti da coperte termiche, lacrime che nessuno può asciugare. Un binario deserto, un bagaglio lasciato a metà corsa. Un telefono che squilla e nessuno risponde.

Madrid è vicina, anche se non ci sono mai stata. È dentro di me, adesso. Nelle vene, nella gola, nel tremore delle mani. Madrid è un dolore che non ha passaporto. Mi alzo. Il pavimento è freddo sotto i piedi. Cammino senza sapere dove sto andando. Ogni passo è un tentativo di fuga, ogni angolo della casa diventa un rifugio troppo stretto per contenere tutto quello che provo. Mi muovo per non crollare. Mi muovo per non gridare. Ogni rumore diventa un’eco che si perde, ogni pensiero un colpo che rimbalza e torna indietro più forte. Penso a loro. A quelli che aspettavano un treno. A quelli che correvano in ritardo. A quelli che avevano un appuntamento, un figlio da andare a prendere, una cena da preparare. A quelli che sono stati strappati alla vita nel momento più normale del giorno. La normalità. Quel lusso che non apprezziamo finché non ce lo portano via. Penso a chi ha guardato negli occhi la morte senza capire. A chi ha sentito solo un boato. A chi non ha avuto il tempo di sentire nulla. Mi avvicino alla finestra. Il vetro è freddo, eppure lo sfioro con le dita come se cercassi un appiglio. Le luci della città sembrano sfocate, ovattate. L’asfalto riflette una malinconia che non sa spiegarsi. Un uomo passa sotto il lampione. Cammina lento, la testa bassa. Non so chi sia, ma so che sente anche lui. Lo sentiamo tutti. È qualcosa che ci attraversa, che ci accomuna, anche se facciamo finta di nulla. Anche se ci diciamo che succede altrove. Anche se cambiamo canale.

Madrid è una ferita che sanguina ovunque.

Torno a sedermi. Il caffè è ormai freddo, ma lo bevo ugualmente. Lo porto alle labbra con una sorta di ostinazione, come se il gesto potesse restituirmi qualcosa che ho perso. Il sapore è amaro, più del solito. E dentro quell’amarezza c’è tutta la consapevolezza che certi dolori non si addolciscono. Che non c’è zucchero sufficiente per lenire certi vuoti. Lo bevo per sentire qualcosa. Per sentire che sono viva. Anche se non so cosa farmene, adesso, di questa vita che mi pare stonata. Spengo la televisione. L’oscurità si espande come un respiro trattenuto troppo a lungo. Non è buio, è un’assenza. È un vuoto che prende forma. La stanza sembra più grande, adesso. Ma non è vero. È solo più vuota. Rimangono i pensieri, come ombre che si allungano sui muri. Quante vite svanite in un istante. Quante possibilità cancellate senza un perché. Quanti nomi che nessuno ricorderà. Quante mani che non stringeranno più. Quanti addii mai pronunciati. Ed io qui. A osservare da lontano. A sentirmi piccola, inutile, colpevole forse, di questa distanza che non consola. Di questa impotenza che mi stringe la gola come un nodo. Di questa rabbia che non trova sfogo. Mi chiedo – no, non mi chiedo nulla. Non ho risposte da cercare. Non cerco redenzione. Cerco solo di restare in piedi. Di non lasciarmi sopraffare da quello che sento. Di non cedere al cinismo, alla rassegnazione, alla voglia di smettere di sentire.

Il mondo cade, e io cerco di restare. Cerco di essere presente, anche nel dolore. Anche nella confusione. Anche quando tutto è troppo. Cerco di dare un senso a ciò che senso non ha. Non per capire, ma per continuare. Per non lasciare che tutto passi invano. Perché ogni volto che ho visto, ogni storia spezzata, merita almeno questo: che qualcuno senta. Che qualcuno scriva. Che qualcuno non dimentichi. Il buio non cancella. Illude. Nasconde. Ma sotto la pelle della notte, le cicatrici brillano. Le storie restano. E anche se nessuno le ascolta, anche se il mondo va avanti, io le porto con me. Cammino con loro. Scrivo con loro. Vivo con loro. Madrid respira dentro di me. E non smette.

• Remember me,
Eclipse •

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