Abbiamo vissuto una fine del mondo, quella che solo un attimo può provocare #
Il 2001 è un anno che sembra ancora respirare. È come se ogni attimo fosse incastonato nell’aria, una presenza invisibile che non puoi ignorare, che ti sfiora ogni volta che chiudi gli occhi. C’è un suono nel passato di quest’anno, un rumore sordo, come quello di un cuore che si spezza senza mai fermarsi del tutto. Il rumore delle Torri che cadono, del metallo che cede, del vetro che esplode. Quel rumore non mi lascia, mi abita, come se fosse diventato parte di me.
11 settembre. Una data che ha smesso di essere un giorno. È diventata un confine. Il prima e il dopo. Mi ricordo la sensazione di gelo che mi attraversa quando vedo il primo aereo. Penso a un errore, a un incidente. Poi arriva il secondo. E capisco. Tutti capiamo. Ma non accettiamo. Non vogliamo accettare. Ogni immagine che scorre davanti ai miei occhi è un pugno allo stomaco. Il cielo azzurro di New York si riempie di fumo, di polvere, di urla soffocate. La mia mente cerca di trovare un ordine in quel caos, ma non c’è ordine in ciò che sto vedendo. Solo distruzione. Solo morte. Solo paura. La paura non si limita a New York. Si estende, si allarga come una macchia d’olio su un foglio bianco. Arriva ovunque, anche qui, a casa mia. Ogni notizia è un sussulto. Il Pentagono colpito. Un aereo che precipita in un campo, sacrificato per salvare altre vite. Quanti altri sacrifici ci saranno? Quanti altri conti dobbiamo pagare?
Non passa molto tempo prima che arrivi la risposta. La guerra in Afghanistan è il primo capitolo di un libro che sembra già scritto. Bombe che cadono, città che si sgretolano, vite che si spezzano. E noi, qui, spettatori di un dramma che non riusciamo a fermare. Mi sento impotente, intrappolata in un mondo che non riconosco più. Poi c’è Genova. Il G8. Una città trasformata in un campo di battaglia. Manifestanti che urlano, poliziotti che rispondono con manganelli e lacrimogeni. Mi ricordo le immagini di quei giorni: volti coperti, corpi che corrono, sangue sull’asfalto. C’era rabbia, tanta rabbia, e una sensazione che tutto stesse andando fuori controllo. E forse era davvero così. Nel mezzo di tutto questo, l’Europa cambia volto. L’Euro arriva come una promessa. Un’illusione di unità. Ma nelle strade non si respira unità. Si respira confusione, smarrimento. Ogni prezzo che sale è un promemoria di ciò che abbiamo perso. Ogni moneta nuova che scivola tra le dita è un ricordo di ciò che non tornerà più.
E così mi ritrovo a guardare questo anno con un misto di dolore e incredulità. Cosa abbiamo imparato? Cosa abbiamo guadagnato? Mi sembra che ogni passo avanti sia stato accompagnato da un colpo al cuore. Ogni vittoria, un lutto. Mi domando spesso cosa ci attende. Il futuro è una pagina bianca o è già scritto nelle ceneri di ciò che abbiamo vissuto? Mi piacerebbe pensare che ci sia ancora spazio per la speranza, ma questa speranza mi sembra fragile, sottile come un filo che potrebbe spezzarsi al primo soffio di vento. E allora cosa facciamo? Ci alziamo o restiamo a guardare? Cambiamo qualcosa o ci limitiamo a sopravvivere? Forse è questa la vera domanda. Non cosa ci aspetta, ma chi saremo quando lo affronteremo. Abbiamo ancora il coraggio di sognare, di credere in qualcosa? O siamo già troppo stanchi, troppo disillusi?
Non lo so. Non ho risposte. Solo domande che mi seguono, che mi attraversano come un vento freddo che non smette mai di soffiare. E voi? Voi cosa sentite? Vi siete già arresi o c’è ancora una scintilla che vi tiene vivi?
THE END.
Remember me,
Eclipse