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Analisi al Capodanno

Il mondo attorno a me pulsa di un’energia sottile, invisibile ma palpabile, un motore che vibra sommesso sotto la superficie del silenzio. Dicembre avvolge tutto con la sua fredda stretta, e il Capodanno si disegna come un miraggio lontano, sfocato da luci artificiali e rumori confusi. Lì fuori, la gente corre, si affanna, si spinge in un caos che sembra un copione scritto male, recitato male, come se l’universo intero si fosse accordato per una messinscena di senso finto. Io, invece, mi preparo al mio rito personale, una celebrazione privata fatta di assenza, di vuoto scelto. Nessun brindisi, nessuna musica, solo il respiro lento del tempo che si consuma senza fretta. Sul tavolo, una candela accesa emana un aroma di sandalo, un profumo caldo che avvolge la stanza come un abbraccio intangibile, una carezza che sfida il gelo che preme alle finestre. L’aria è gelida, ma la fiamma – tremolante e fragile – tiene vivo un piccolo fuoco dentro me, un faro che resiste all’inverno. Sorseggio una bibita dal gusto lieve di rosa, quasi un ricordo di primavera, e mi lascio attraversare dal pensiero che la fine dell’anno è solo un’illusione. Un numero che cambia, una convenzione che ci raccontiamo per sentirci meglio, per dare un senso a ciò che non ne ha. Il tempo scorre immutabile, indifferente alle nostre feste e alle nostre speranze. Fuori, la risata di qualcuno si perde lontana, si mescola al rombo delle auto e a un vento che porta via tutto, anche le promesse. Guardo il cielo, nero e profondo, e una stella solitaria taglia quell’oscurità come un’eco di eternità fragile. La sua luce sembra piccola, insignificante, ma è lì, costante e immutabile, un faro silenzioso nel mare del tempo. Penso ad Albert, alla sua mente rigorosa, matematica, ossessionata dall’ordine come la mia. Mi chiedo se anche lui sente questo peso, questa insoddisfazione che arde sotto la pelle davanti alle feste fatte di apparenze, di riti vuoti e obbligati.

Mi alzo piano e vado alla finestra. La mia attenzione si ferma su un dettaglio minuscolo ma potente: un lampione con il vetro rotto, incrinato da tempo, che lascia filtrare una luce spezzata, distorta. Quella luce è un’immagine di noi, di come attraversiamo la vita scegliendo cosa far passare, cosa nascondere, cosa lasciare fuori dal campo visivo. Imperfetti come quel vetro, incapaci di accogliere tutto ciò che il mondo ci mostra, frammenti di realtà piegati, deformati dai nostri limiti. Torno al tavolo e prendo un taccuino, la penna scivola sul foglio, le parole escono scarne, nette, necessarie. Scrivere è questo: mettere ordine nel caos interiore, una danza solitaria che mi riconduce a me stessa, che mi tiene in piedi. È la mia ancora, il mio rifugio, la voce che non tace mai. Il Capodanno non è un punto di partenza né di arrivo, ma un intermezzo, uno spazio sospeso dove il mondo si illude di poter ricominciare da capo, come se il tempo fosse una linea retta e non un cerchio che gira. Io non credo a quei nuovi inizi proclamati con enfasi. Io non ricomincio mai davvero. IO continuo. Semplicemente, con la stessa intensità silenziosa, con la stessa ricerca senza pausa. Non c’è una rinascita, ma un fluire ininterrotto, una corrente che trascina ogni cosa dentro un movimento continuo.

La scrittura è questo: un respiro che non si ferma, un cammino senza fine che si snoda tra dolore e bellezza, tra confusione e luce. Non serve spiegare, né trovare risposte definitive. Il senso è nell’impossibilità di trovarlo, nella fragilità di ogni tentativo. Non ci sono certezze, solo sospensioni, vuoti da accogliere, spazi da attraversare con la mente e con l’anima. Il vuoto dentro, quella mancanza che non smette di farsi sentire, è il centro di tutto. È lì che la scrittura apre una porta, una soglia che invita chi legge a entrare, a sentirsi parte di questa ricerca incessante, questo dialogo silenzioso con l’assenza. Il mondo intorno a me si muove, cambia, ma io resto dentro questo flusso che non conosce riposo. Ogni parola che scrivo è un passo avanti in un viaggio che non si conclude mai, che non ha mai una fine vera, ma solo pause momentanee, respiri sospesi. Non c’è mai una chiusura definitiva, solo un accenno a qualcosa che continua a vivere oltre la pagina, oltre il tempo, oltre la mente. Il respiro si ferma un attimo, ma non si spegne, resta sospeso nell’aria, come una promessa senza forma. La porta che chiudo resta sempre socchiusa, una fessura da cui filtrano ombre e luci, in attesa di nuovi passi, di nuove parole. Il ciclo ricomincia, la ricerca non si arresta mai, e con lei il desiderio di vivere la domanda, di sentire il peso dell’incertezza come un fuoco che arde lento, senza consumare. Così continua il racconto, così scorre il pensiero, senza pause né confini, un fiume che si perde nell’orizzonte senza mai arrivare davvero.

Remember me,
Eclipse

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