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Detox from the Noise

Mi hanno detto che serve disintossicarsi, che serve sparire per ritrovarsi, che bisogna scomparire per ricomporsi, ed io ci ho creduto con tutto il peso del mio corpo stanco. Ho preso le mie ossa fragili e le ho immerse in questo vuoto che chiamano riabilitazione, ma che in fondo è solo un modo più elegante per dire che devi imparare a stare zitta con te stessa, ad ascoltare tutto ciò che fa male senza coprirlo di rumore, senza coprirlo di abitudini, senza coprirlo con nessuno. L’eco dei miei pensieri è diventato più forte nel silenzio, ed io non ho più potuto ignorarlo. Ho iniziato a scavare nelle pieghe del mio stomaco, nelle pieghe del mio cuore, nei segreti non confessati, nelle cose che non ho mai avuto il coraggio di dire neppure a me stessa, e ho trovato prove sparse, resti di un passaggio, tracce sottili di un portale nascosto tra le vene e il respiro, una fessura minuscola da cui passa ancora un po’ di luce. Ogni notte sentivo il battito della mia pelle sotto le lenzuola fredde, e mi sembrava di viaggiare in un’altra dimensione, una dove il dolore non ha bisogno di un nome per esistere, dove puoi solo sentirlo come si sente una cicatrice che pulsa anche quando non piove. C’è stato un momento in cui ho creduto di essermi persa per sempre, e forse era vero, forse l’ho fatto davvero, ma c’è una perdita che è necessaria, un naufragio che salva. Ed io non sono più tornata indietro, non ho cercato la strada di prima, ho lasciato che mi si spezzasse addosso la mappa, che andasse in frantumi ogni punto cardinale, ogni certezza costruita come una trappola, ogni sicurezza che avevo barattato con l’anestesia. Ho smesso di cercare risposte ed ho iniziato ad ascoltare i movimenti minimi, quelli che fanno i pensieri quando ancora non si sono formati, quando sono solo tensioni sotterranee, ombre che si agitano dietro le costole.

Tutto è diventato immersione. Tutto è diventato vertigine. Ho lasciato che il mio corpo annegasse in un mare senza nome, ed ho cominciato a respirare sott’acqua. Non so quando è successo, ma ad un certo punto ho smesso di avere paura. E non perché il dolore fosse sparito, anzi, lo sentivo con ancora più intensità, ma era diverso, come se finalmente avesse trovato il suo posto dentro di me, come se non dovessi più combatterlo ma solo riconoscerlo. La mia stessa pelle è diventata un territorio nuovo, da esplorare senza mappa, da percorrere senza meta. Ogni segno, ogni smagliatura, ogni ombra sotto gli occhi è diventata geografia, è diventata linguaggio. Ogni pensiero che nasceva non aveva lo scopo di portarmi da qualche parte, ma solo di ricordarmi che ero viva. Viva dentro il caos. Viva dentro la confusione. Viva dentro qualcosa che non potevo più chiamare “me”, ma che era comunque tutto ciò che restava. Non stavo così bene da un tempo che non riesco neanche a misurare. E non era felicità. Non era pace. Era presenza. Era verità. Era stare in piedi dentro il proprio disastro e sentire che sotto le macerie c’era ancora calore. C’era ancora battito. C’era ancora voce. Ho capito che il mondo può continuare a muoversi anche se tu decidi di non seguirlo. Ed io ho fatto proprio questo. Mi sono fermata. Mi sono seduta sul bordo della mia stessa esistenza e ho guardato tutto passare, tutto bruciare, tutto dissolversi. Ho lasciato andare. Le aspettative. Le scuse. Le versioni falsate di me. Ho smesso di giustificarmi, di spiegarmi, di cercare un posto tra le parole degli altri. Ho scelto di sparire. Ho scelto di entrare in un altro universo.

Un pianeta mio. Dove non esistono più riflessi distorti. Dove la voce dentro non deve più gridare per essere sentita. Dove posso perdermi senza dovermi trovare. Dove posso restare incompleta senza vergognarmi. Questo luogo non ha nome, non ha forma, non ha tempo. Esiste solo quando chiudo gli occhi. Esiste solo quando scrivo. Esiste solo quando smetto di fingere. Non è un rifugio, non è una fuga. È un modo diverso di esistere. È un ritorno a qualcosa che non ho mai conosciuto, ma che mi riconosce. Qualcosa che mi chiama senza parole. Qualcosa che mi tiene sveglia nelle notti senza sogni. Qualcosa che mi toglie e mi restituisce nello stesso istante. Io l’ho chiamata me stessa, ma forse non è un nome. Forse è solo un battito. Un impulso. Un bagliore che non si spegne. Tutto ciò che ho fatto è stato lasciarmi andare. Non c’è stato un gesto eroico. Non c’è stato un momento preciso. Solo una lunga discesa dentro il buio, una caduta lenta, consapevole. Non ho più bisogno di spiegare. Non ho più bisogno di tornare. Mi basta sapere che esisto ancora, anche se diversa. Anche se frammentata. Anche se lontana. Ed in questa distanza ho trovato lo spazio per respirare. Per scrivere. Per non chiedere nulla e lasciare che le parole scorrano, come il sangue che non ha mai smesso di muoversi. Un fiume che attraversa il mio silenzio e mi ricorda chi ero prima di dimenticarmi. Ogni frase è un passo. Ogni parola un frammento di pelle. Ogni riga è un luogo che non ho mai visto, ma che conosco da sempre.

Scrivere non è tornare indietro. È solo continuare. Anche quando tutto sembra sospeso. Anche quando nulla si risolve. Anche quando tutto resta incompiuto. E così, senza chiudere, senza concludere, senza voltarmi, lascio che il respiro si fermi per un istante.
Ma resta. Resta.

DETOX.
Remember me,
Eclipse

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