← Torna al blog

Un incontro tra mondi

Milano, oggi. Non so nemmeno da dove cominciare. Forse dalla luce. Quella luce bianca e fredda che scivola sui palazzi, si riflette sulle vetrine e taglia l’aria come una lama di vetro. Milano ha una luce che non perdona, non concede illusioni. Illumina ogni cosa con una precisione chirurgica, mette a fuoco dettagli che vorresti ignorare: una ruga sulla fronte, la piega sgualcita di un cappotto, la polvere sottile che si accumula sugli scaffali dei negozi. Milano non addolcisce nulla. Ti guarda dritto negli occhi e ti costringe a fare lo stesso. Hikari cammina accanto a me con il suo passo leggero, quasi sospeso. Lei non sembra sfiorata da questa luce. O forse semplicemente non la teme. Ha un modo di muoversi che mi incanta, un equilibrio perfetto tra presenza e assenza. Certe persone esistono senza sforzo, come se la loro stessa esistenza fosse un dettaglio inevitabile dell’universo. Lei è così. Una pennellata d’inchiostro su una tela bianca. Un accento nel posto giusto.

Ci infiliamo dentro un negozio in Galleria, uno di quelli che sanno di soldi e tempo, e tutto sembra studiato per essere perfetto. Il commesso ci squadra, sorride con una professionalità misurata, ma io lo vedo che ci sta classificando. Quanti soldi abbiamo, quanta sicurezza portiamo addosso, quanto tempo meritiamo. Questo posto non è fatto per chi esita. Qui devi sapere chi sei, cosa vuoi, e avere abbastanza faccia tosta per fartelo dare. Hikari non esita. Sfila un cappotto di lana color cammello dalla gruccia e lo prova davanti allo specchio. Si muove lenta, osserva il tessuto che le cade sulle spalle, allunga una mano per sfiorare la trama sottile della stoffa. Io mi limito a guardare. Mi piace il modo in cui si osserva, come se fosse una scultura in divenire, una forma che prende senso nel riflesso. “Cosa ne pensi?” mi chiede senza voltarsi. Che sei bellissima, vorrei dire. Ma mi limito a un cenno.

Le strade fuori sono un fiume di corpi in movimento. Milano non si ferma mai, e oggi sembra ancora più affamata del solito. La gente entra ed esce dai negozi con sacchetti rigonfi, si incastra nei caffè, si muove a scatti come in una danza disarticolata. Io e Hikari scivoliamo dentro un bistrot nascosto, di quelli con i tavolini minuscoli e le pareti rivestite di specchi. Un posto che sembra fuori dal tempo. Ordiniamo un caffè e una fetta di torta al cioccolato. Lei sorride mentre infila il cucchiaino nel dolce, e per un attimo il mondo sembra fermarsi. “Milano mi piace,” dice piano. “Ha qualcosa di crudele, ma anche di onesto. Non cerca di piacerti per forza. Ti sfida. Ti costringe a trovarti un posto dentro di lei.”

Annuisco. La capisco. Milano non fa sconti. Non ti prende per mano. Ti lancia dentro il suo flusso e ti lascia affogare o nuotare. Usciamo che il cielo si è fatto di un blu gelido, limpido come vetro soffiato. Le luci si accendono sulle strade e la città cambia pelle, diventa più morbida, meno tagliente. I neon tremano sui marciapiedi bagnati. Ci fermiamo davanti a una vetrina, il nostro riflesso si mescola con gli abiti esposti dietro il vetro. Due figure sospese tra il dentro e il fuori. Tra quello che siamo e quello che sembriamo. “Andiamo?” chiede Hikari. Annuisco. Ma una parte di me resta qui. Incastonata in questa luce, in questo momento perfetto e incompiuto. In questa città che non sa accoglierti, ma nemmeno lasciarti andare.

Suspense.
Remember me,
Eclipse

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *