Vigilia di Natale 2003. Il tempo si piega su se stesso in questa notte sospesa tra ciò che è stato e ciò che sarà. Lo vedo nelle luci tremolanti che si riflettono sui vetri, nei fiocchi di neve che si posano leggeri senza fare rumore, nelle ombre che si allungano sulle pareti come se il passato cercasse di riconquistare il presente. C’è un odore che riconosco, un calore che non appartiene solo alla fiamma del camino ma a un ricordo che non si lascia dimenticare. Mio padre, la sua voce che riempie la stanza, la vecchia cassetta di “Home Alone” tra le mani, il sorriso complice di mia madre. Eravamo ancora una famiglia intera, indivisa, prima che il tempo iniziasse il suo lavoro silenzioso di erosione. Il nastro scorreva nel videoregistratore e con lui la mia infanzia, che si aggrappava a ogni scena, a ogni risata che riecheggiava nella stanza. Il Natale era tutto lì, in quel momento congelato nel tempo, in quell’illusione di eternità.
Il profumo della cioccolata calda si diffondeva nell’aria come una promessa non detta, un’ancora lanciata verso un futuro che non poteva ancora ferirmi. Ogni sorso era un ritorno, ogni nota della colonna sonora un richiamo che mi riportava a casa, a quel luogo che esisteva solo nella memoria. Kevin McCallister, lasciato solo in una casa troppo grande, troppo silenziosa. Io, davanti allo schermo, avvolta in una coperta, mi sentivo al sicuro nel piccolo mondo che ancora non conosceva le crepe. Guardavo quel bambino che, con ingegno e coraggio, respingeva i ladri e proteggeva ciò che era suo. E dentro di me, senza ancora saperlo, prendeva forma una consapevolezza: la casa non è fatta di muri, ma di legami. E quando quei legami si spezzano, nessuna fortezza può proteggerti dal freddo.
Il Natale ha una strana magia. Crescendo, impariamo a vederne le ombre, le assenze che si fanno più ingombranti, le voci che si spengono nei ricordi. Eppure, c’è qualcosa che resiste. Una scintilla che rifiuta di estinguersi, un barlume di speranza che sopravvive nonostante tutto. Ogni dicembre, quella fiamma si riaccende, debole ma testarda, nella luce delle decorazioni, nel profumo di biscotti appena sfornati, nella melodia di una canzone che conosciamo a memoria. Ci aggrappiamo a quei dettagli, cerchiamo di trattenere quel calore, di non farlo scivolare via. Mi chiedo spesso cosa resti di quei Natali passati, di quelle sere trascorse davanti alla televisione, del calore che sembrava eterno. La risposta è nel silenzio della notte, in quel senso di incompletezza che mi accompagna da allora. Perché crescere significa anche questo: comprendere che alcune cose non tornano, che certi momenti vivono solo nella memoria, ma che proprio lì continuano a esistere. E forse è questo l’incanto più grande: la capacità di sentire ancora, di riconoscere il sapore dolceamaro della nostalgia senza lasciarsi inghiottire da essa.
«Home Alone» non è solo un film, è un portale, un filo sottile che mi lega a chi ero, a chi siamo stati. Ogni volta che lo guardo, è come aprire una finestra su un tempo che non posso più toccare, ma che ancora mi sfiora. È la voce di mio padre, il sorriso di mia madre, la certezza di un mondo che non conosceva il disincanto. È il Natale che sopravvive dentro di me, anche quando tutto sembra suggerire il contrario. C’è un momento, in ogni vigilia, in cui il tempo sembra fermarsi. Un attimo in cui il presente e il passato si sfiorano, si riconoscono, si concedono un ultimo ballo prima che l’alba spezzi l’incantesimo. È in quel respiro sospeso che ritrovo la bambina che ero, quella che credeva nella magia senza bisogno di prove, quella che sapeva che la casa è ovunque ci sia amore. La cerco, la sfioro, la lascio andare.
Il Natale è questo, dopotutto: un’illusione fragile, un ricordo che brucia come una candela che lotta contro il vento. Ma finché quella fiamma resiste, anche solo per un istante, il passato non è mai davvero passato.
Christmas.
Remember me,
Eclipse