← Torna al blog

.Donne.

Passeggio per le strade di questa città che mi appartiene e che mi respinge. I palazzi si alzano come giganti muti, le auto scorrono senza sosta, i volti si susseguono senza lasciar traccia. Eppure c’è qualcosa nell’aria, un sentore sottile, quasi impercettibile, che si insinua tra le crepe del cemento e delle coscienze. Il vento porta con sé un profumo dolce e leggero, un richiamo a una memoria che non vuole farsi dimenticare. Un uomo si ferma davanti a me. Giovane, con occhi che sanno già troppe cose. Mi porge un rametto di mimose. Lo fa con un gesto quasi timido, come se stesse offrendo qualcosa di fragile, qualcosa che potrebbe spezzarsi tra le dita. Il giallo brillante dei fiori contrasta con il grigio dell’asfalto, con il trambusto che ci circonda. Li prendo senza una parola.

La mimosa. Un simbolo, una promessa, un grido sussurrato. La stringo tra le mani mentre un pensiero mi attraversa, affilato come una lama: a cosa serve un gesto, se non lo accompagna la consapevolezza? Perché un solo giorno all’anno? Perché solo ora il mondo si ricorda di noi? E il resto del tempo? Torniamo nell’ombra, torniamo a combattere in silenzio, a piegarci sotto il peso di ciò che ci è sempre stato negato. Cammino, sento la strada sotto i piedi, l’aria fredda che taglia il viso, il brusio delle vite che mi sfiorano senza toccarmi davvero. La mimosa resta tra le mie dita, un piccolo sole tremante nella morsa del vento. Penso alle donne prima di me, a quelle che hanno parlato quando nessuno voleva ascoltare, a quelle che hanno marciato quando il mondo diceva loro di stare ferme. Penso a quelle che hanno amato, sofferto, resistito. A quelle che hanno visto i loro sogni infrangersi contro muri troppo alti, a quelle che non si sono arrese, a quelle che invece non ce l’hanno fatta. Mi fermo. Respiro. Gli anni passano, le lotte si ripetono. Ogni conquista sembra scontata finché non viene messa in discussione. I diritti, quelli che dovrebbero essere inalienabili, diventano monete di scambio in giochi di potere che non ci appartengono. Nulla è garantito. Ogni passo avanti è il risultato di una battaglia. E ogni battaglia ha un prezzo. La mimosa nella mia mano mi sembra improvvisamente pesante. Non è solo un fiore. È la memoria di chi ha lottato, di chi ha perso, di chi ha vinto a metà. È il simbolo di una resistenza che non può fermarsi, di una storia che non deve sbiadire.

C’è chi oggi festeggia. Chi si sente orgoglioso di questo giorno, chi si illude che sia abbastanza. Ma la verità è che non lo è mai. Un giorno non basta per chi ha dovuto lottare ogni singolo istante della propria esistenza. Un giorno non cancella la fatica, il dolore, le ingiustizie. Un giorno non può bastare per chi ha dovuto urlare per essere ascoltata, per chi ha dovuto dimostrare il proprio valore mentre gli altri ne avevano già uno assegnato dalla nascita. La festa della donna. Un nome che suona dolce, ma che ha un retrogusto amaro. Perché dobbiamo ancora festeggiare ciò che dovrebbe essere scontato? Perché dobbiamo ancora sottolineare la nostra esistenza, rivendicare ciò che dovrebbe essere un diritto naturale? Non dovrebbe essere necessario. Non dovrebbe esserci bisogno di un giorno, di un simbolo, di una lotta. Ma il mondo non funziona così. E noi lo sappiamo. Continuo a camminare. Il cielo si tinge di un arancio spento, il tramonto cala sulla città con la sua luce malinconica. Le voci si mescolano nell’aria, frammenti di vite che si intrecciano e poi si dissolvono. Guardo la mimosa, ancora tra le mie dita. Non voglio che sia solo un gesto, solo un regalo, solo un’abitudine. Voglio che sia memoria, voglio che sia resistenza. Voglio che sia un monito, una promessa, una sfida. Non basta un giorno per cambiare la storia. Ma basta un giorno per ricordarsi che ogni giorno può essere il punto di partenza per farlo. E noi non possiamo permetterci di dimenticarlo. Mai.

Buona festa della donna.

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *