Milano si sveglia così, in una mattina che non ho deciso io, con la luce che squarcia le tende come se avesse un’urgenza, come se non potesse più aspettare. L’aria mi colpisce in volto come uno schiaffo dato da qualcuno che ti ama troppo per lasciarti dormire ancora. È glicine e vita. È l’odore delle cose che ritornano anche quando non le hai chiamate. Mi alzo senza capirne il motivo, come se un filo invisibile mi trascinasse fuori dal letto. Cammino scalza, sento il pavimento che ha ancora la memoria del freddo, ma è un freddo che si ritira, che cede il passo, che si arrende. Il caffè borbotta nella moka come una voce che si sveglia stanca. Ma fuori, oltre il vetro, c’è qualcosa di più forte. Il profumo dell’aria entra con violenza, si prende lo spazio, sovrasta tutto, anche le mie abitudini, anche il mio bisogno di restare ferma. Apro la finestra e non sono io a guardare il mondo: è il mondo che mi guarda, che mi inghiotte, che mi sputa fuori con una nuova pelle. Milano non è solo città. È rumore e asfalto, sì, ma oggi è anche linfa e rabbia e canto. La primavera qui non è dolce. È un urlo. Un’esplosione di carne e respiro e memoria. Ogni finestra è una bocca che grida, ogni balcone un petto che si apre.
Metto il libro nella borsa come si mette un’arma. Esco. Cammino tra le crepe del marciapiede che sembrano sorridere a ogni passo. La città è viva, ma non come lo è di solito. È viva come un animale che si è scrollato di dosso la polvere e ora vuole mordere. I fiori invadono gli angoli, resistono al cemento, e vincono. Non con la delicatezza. Con la ferocia della bellezza. Li vedo cadere, i petali. Scivolano nell’aria come frammenti di un discorso interrotto, come parole che nessuno ha avuto il coraggio di dire. Sono leggeri ma spietati. Non chiedono il permesso. Si lasciano guardare e basta. Arrivo al parco, quello che conosco da anni. Ma non lo riconosco. Perché ogni anno, in primavera, diventa altro. Un altro luogo, un altro tempo. Una tela. Ma non una tela gentile. È pittura violenta, è colore che urla, che non ha paura di sbagliare. Mi siedo su quella solita panchina, e per un attimo mi sembra di non avere peso. La fontana getta acqua con la precisione ossessiva del tempo, ma il sole la tradisce, si rifrange, si moltiplica, rompe l’ordine come fanno i bambini con i giochi degli adulti.
Un bambino corre. La sua risata è tutto ciò che serve per capire che la vita, nonostante tutto, continua a suonare. Una musica disordinata, ma vera. Gli uccelli gli rispondono, e non c’è un senso da trovare in questo, solo una perfezione momentanea che si rifiuta di durare. E forse è proprio questo che fa più male. Sapere che c’è qualcosa di perfetto che non durerà. Che non può. Che non deve. La perfezione è nemica del tempo, e il tempo è nemico dell’attesa. Resto lì. Non per cercare qualcosa. Ma per lasciare che qualcosa mi attraversi. Come il vento che si infila sotto i vestiti, come la memoria di un bacio che non hai mai dato ma che senti ancora sulle labbra. Ogni dettaglio mi entra dentro come se fosse già parte di me. Le voci, i passi, le foglie che si muovono senza dire nulla, ma che dicono tutto. Non c’è bisogno di capire. C’è solo da sentire. E io sento tutto. Troppo. Sento anche ciò che manca. Sento la mancanza come una presenza, come un’ombra che si allunga dietro ogni fiore, come una malinconia che nasce proprio nel momento in cui ti accorgi che qualcosa è bello.
È la primavera. È il suo veleno e il suo antidoto. È la stagione che non chiede spiegazioni, che non aspetta che tu sia pronta. Ti prende e basta. Ti scaraventa in mezzo alla vita anche se tu vorresti solo dormire ancora un po’. E non c’è via di fuga. Non c’è riparo. Non c’è modo di restare intatti. Ogni primavera è una ferita che si riapre con grazia. Ogni petalo che cade è una lettera che non è mai stata scritta. Ogni respiro è un addio che non abbiamo mai detto. Le persone passano accanto a me. Alcune corrono. Altre parlano al telefono. Nessuno guarda davvero. Nessuno si accorge che tutto, proprio adesso, sta cambiando. Che il mondo sta urlando. Che la vita sta chiedendo solo una cosa: attenzione. Ma non l’attenzione distratta di chi guarda uno schermo. L’attenzione viva, radicale, viscerale. Quella che hai quando ami, quando soffri, quando non sai più se ti stai perdendo o ritrovando.
E io non so. Non so nulla. Ma resto lì. Resto e sento. Resto e lascio che la primavera mi scavi dentro. Resto e mi lascio attraversare da tutto ciò che non capisco. Non voglio comprendere. Voglio solo essere parte di questo momento, anche se non mi appartiene. Anche se non mi basta. Anche se fa male. Perché c’è un dolore sottile nella bellezza. Un dolore che non si può spiegare. È il sapere che tutto passa. Che ogni fiore cadrà. Che ogni raggio di sole sarà dimenticato. Che ogni risata si dissolverà nell’aria. Ma anche questo fa parte del gioco. Anche questo è vivere. Non trattenere. Non possedere. Solo guardare. Sentire. Scrivere. E allora scrivo. Scrivo perché è l’unico modo che ho per non esplodere. Scrivo perché se non lo faccio, mi sgretolo. Scrivo perché la primavera dentro di me è feroce, e se non le do voce, mi divora. Scrivo senza fermarmi, perché la vita non si ferma. Perché il tempo non ha pietà. Perché ogni istante che passa è già ricordo. Scrivo per non dimenticare cosa significa sentire. Scrivo per restare, anche se so che non posso. Scrivo come si respira, come si piange, come si ama.
Scrivo.
Remember me,
Eclipse