Riscoprire le radici: un’analisi sociologica
Posted on September 25th, 2005 at 1:35 PM | Tags: Progresso | 0 CommentsL’ho guardato di nuovo. Matrix. Perché? Non lo so. Forse per cercare una risposta che non arriva mai, o per ritrovare quella sensazione che mi accompagna sempre, la sensazione di non appartenere a questo mondo. Un mondo che è lì, davanti ai miei occhi, eppure… Eppure c’è qualcosa che non torna, qualcosa di irrisolto. È strano come un film, un semplice film, riesca a cambiare il modo in cui vedi la realtà. «Remember me», come un’eco che rimbalza dentro di me. Un richiamo che mi riporta alla mente la verità di ciò che siamo, a quella sensazione che abbiamo perso il controllo, che siamo prigionieri senza saperlo.
Oggi ho rivisto Matrix, e mentre le immagini scorrevano veloci davanti ai miei occhi, ho avuto l’impressione che, in qualche modo, stessero parlando anche di me. Mi vedo nel film. Non nel senso di identificarmi con i personaggi, ma nel senso di sentirmi un’osservatrice distaccata, incapace di accettare passivamente ciò che mi circonda. Ogni singolo fotogramma mi ricordava che, in fondo, siamo solo piccoli frammenti di un sistema più grande, un sistema che non comprende più. E io? Io sono quella che guarda. Mentre il film scorreva, ho fatto una cosa che non faccio mai. Mi sono fermata. Ho fermato tutto: il mondo fuori, la casa che respirava, il rumore incessante della città. E ho iniziato a guardare i dettagli. La luce che filtrava dalla finestra, la polvere che danzava nell’aria. La realtà che mi circonda non è più solo un quadro statico. È viva, è concreta. Ma è anche vuota.
Ho preparato qualcosa da mangiare. Non c’era nulla di speciale in quello che stavo facendo. Un piatto semplice, solo una routine che mi sembra ogni giorno più insignificante. Ma, mentre lo facevo, ogni movimento aveva un peso. Il rumore della posata che colpiva il piatto. Il profumo di cipolla che friggeva. Un aroma che, per un attimo, mi ha avvolta completamente. Ma non era il profumo che mi inquietava. No, era il silenzio che seguiva, come un abisso che inghiottiva tutto. Perché è sempre così vuoto? La luce del pomeriggio stava cambiando, tuffandosi nell’ombra. Guardavo la stanza, eppure ero altrove. La finestra, quella finestra, mi parlava. Mi diceva che nulla di ciò che vediamo è veramente reale. E la domanda si è fatta spazio dentro di me, come una ferita mai guarita. Quanto davvero vediamo? Quanto capiamo?
C’è una scena del film che mi ha colpito più di tutte. Quella in cui Neo, finalmente, comprende la verità. La verità che è lì, davanti ai suoi occhi, ma che ha bisogno di un risveglio, di un salto nel vuoto per vederla. Ed è stato in quel momento che ho capito. Noi siamo come Neo, intrappolati in un mondo che pensiamo di capire, ma che in realtà non comprendiamo affatto. E forse, questo è il nostro destino: vivere dentro una prigione invisibile, fino al giorno in cui decidiamo di risvegliarci. Mi sono chiesta se quel risveglio sia mai possibile. Se c’è una via d’uscita dalla monotonia che ci avvolge ogni giorno. O se, semplicemente, siamo condannati a rimanere prigionieri di noi stessi, dei nostri pensieri, dei nostri limiti. Non lo so. Non posso saperlo.
E mentre tutto intorno a me continuava a scorrere, mi sono fermata ancora una volta. Ho guardato il cielo fuori dalla finestra, quel cielo che non ha mai risposte, solo domande. E mi sono chiesta: «Siamo davvero liberi, o siamo solo una versione più sofisticata di prigionieri?». E così, con il cuore pesante e la mente frastornata, ho messo il piatto nel lavandino e ho smesso di pensare. Ma, in fondo, non avevo smesso davvero. Il pensiero che mi ossessiona è ancora lì, come un filo invisibile che mi tiene ancorata a una realtà che non posso più sopportare.
Voglio sapere cosa pensi tu, che leggi. Sei mai riuscito a vedere oltre ciò che ti è stato mostrato?
Sei mai riuscito a uscire dal sogno?