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Riscoprire le radici: un’analisi sociologica

L’ho guardato ancora, Matrix. Ancora una volta, come se cercassi dentro quelle immagini un varco, un segno che sfugge, una piega nascosta in cui posare lo sguardo. Non so spiegare perché torno a quel film, forse perché quel mondo digitale e insieme così umano risuona con qualcosa che porto dentro da sempre, qualcosa che non si placa, che si agita come un’ombra sotto la pelle. È la sensazione che non appartengo, che questo posto intorno a me non è il mio vero orizzonte, ma un’illusione fragile e sottile, un velo che copre l’invisibile. Il film scorreva e con esso un ricordo ancestrale, una cicatrice che si apre senza guarire, un rumore che attraversa il silenzio della mente. «Remember me», sussurrava quella voce lontana, un’eco che rimbalzava senza posa dentro la mia coscienza, un richiamo a ricordare chi siamo quando tutto sembra perduto. Ogni fotogramma era un frammento di quella realtà che sento sfuggirmi, un intreccio di immagini e verità nascoste dietro la superficie. Non mi identificavo, no, non ero Neo o Trinity, ma quella che osserva, che assiste senza potersi fermare, che non si rassegna al meccanismo che la ingloba. Ero quella che guarda, che si perde nei dettagli nascosti, che non lascia andare il filo sottile che lega la mente a quel senso di straniamento. Il mondo fuori, la stanza, la luce che filtrava dalla finestra, la polvere che volteggiava come se danzasse in un’aria densa di silenzio. Quel silenzio era il vuoto che riempiva ogni spazio, un vuoto senza confini, una presenza assente. La realtà attorno a me non era più un’immagine fissa, ma un organismo vivente, respirante, fragile e concreto insieme, come se ogni granello di polvere fosse un universo in sé.

Preparavo da mangiare, un gesto semplice, banale, un rituale quotidiano che scivola via senza lasciare tracce. Ma in quel momento ogni movimento aveva un peso inaspettato, ogni suono di posata che toccava il piatto si trasformava in un battito profondo, in un’eco lontana. Il profumo della cipolla che friggeva si diffondeva nell’aria, un aroma familiare eppure straniante, un soffio che avvolgeva e stringeva. Ma era il silenzio dopo, quel vuoto che si spalancava come un abisso, un tunnel senza fine che inghiottiva ogni suono e ogni pensiero. La luce del pomeriggio cambiava, la stanza si tuffava lentamente nell’ombra, e io ero altrove, persa in quella finestra che sembrava raccontarmi una storia mai detta, una verità invisibile. Nulla di ciò che vediamo è reale, sussurrava quel vetro sottile, e il pensiero si faceva strada dentro di me come una ferita aperta, come un taglio che brucia senza rimarginarsi. Quanto davvero vediamo? Quanto siamo capaci di comprendere? Una scena in particolare, quella in cui Neo finalmente spalanca gli occhi alla realtà, quella verità nascosta che non si può afferrare senza un salto nel vuoto, senza lasciare andare tutto ciò che conosciamo. Quell’attimo sospeso, quel momento di risveglio che è insieme dolce e crudele. Ho sentito allora il peso di quella prigione invisibile che ci circonda, un sistema che ci inghiotte senza farci accorgere, un labirinto fatto di illusioni e silenzi. Noi, come Neo, intrappolati in un mondo che non comprendiamo, in una gabbia che ci tiene stretti ai nostri pensieri, ai nostri limiti, alle nostre paure. La monotonia che ci avvolge è una catena sottile, un velo che ci impedisce di vedere oltre. Il risveglio è un passo incerto, una porta socchiusa su un abisso che fa paura. E forse siamo condannati a camminare dentro questo labirinto per sempre, a cercare senza mai trovare, a vivere senza davvero essere.

Il cielo fuori dalla finestra non dà risposte, solo domande senza fine, un mare di silenzio che ci osserva senza giudicare. Lì, sotto quel cielo immenso, mi sono trovata sospesa, con il cuore pesante e la mente che vacilla. Il piatto che avevo preparato ora giaceva nel lavandino, un gesto meccanico che tradiva la confusione dentro di me. Non avevo smesso davvero di pensare, il filo invisibile che mi lega a questa realtà incerta è ancora lì, teso, vibrante. È un peso che porto senza sosta, un’eco lontana che si espande dentro ogni attimo, dentro ogni respiro. Questa scrittura è la mia fuga, il mio gioco di luce nel buio, il modo per tenere viva quella fiamma che arde senza consumare. Non cerco risposte definitive, né spiegazioni, ma solo il flusso ininterrotto di un pensiero che si dipana come un fiume impetuoso. Ogni parola è un frammento, un dettaglio che forma un mosaico incompiuto, una verità che non vuole essere chiusa ma solo aperta. È nel vuoto che scrivo, nell’incompletezza, nella sospensione. Il peso del non detto, il respiro che non si ferma. La realtà si fa carne, si fa respiro, si fa silenzio che pesa, si fa presenza invisibile. È un racconto che si dipana senza interruzioni, senza pause, senza conclusioni. Non c’è mai una fine, solo un’apertura che si prolunga oltre la pagina, oltre il tempo, oltre il confine di ciò che siamo disposti a vedere. Il senso è nell’impossibilità di trovarlo, nella bellezza fragile di un viaggio senza arrivi, senza traguardi. La scrittura diventa così il mio modo di vivere la domanda, di accogliere il vuoto, di abbracciare l’incertezza. Il mondo si racconta attraverso me, ogni dettaglio è un riflesso di ciò che è invisibile, ogni gesto un’eco del movimento incessante che mi attraversa. Non c’è bisogno di chiudere, di spiegare, di definire. Basta lasciare che il respiro continui, che la parola scivoli via leggera come un filo di fumo, come un’ombra che sfuma senza mai sparire del tutto. La porta resta socchiusa, il cammino continua, la ricerca non si arresta mai. E in quel continuo fluire c’è tutta la vita, tutta la verità, tutta la fragilità di ciò che siamo.

Remember me,
Eclipse

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