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Il Vuoto Dei Cuori

San Valentino. Un giorno come tanti, ma anche no. La gente parla di amore, lo celebra, lo esalta come se bastasse un gesto, un fiore, una frase dolce per incapsularlo in un angolo perfetto della vita. Ma l’amore, quello vero, quello che ti attraversa senza chiedere il permesso, non ha bisogno di occasioni. Non ha bisogno di una data sul calendario per esplodere o per farti sentire meno sola. Eppure, in questo giorno, qualcosa dentro di me si fa più pesante. È il 2002 e in giro il mondo si prepara a rendere tutto più scintillante, più profumato, più… Falso. Cene, regali, sorrisi. Il mio cuore, invece, resta fermo, sospeso, in un ricordo che non riesce a svanire.

Mi vedo ancora lì, seduta accanto a mia madre, in un ristorante elegante. L’aria è pregna di formalità, i camerieri scivolano tra i tavoli con movenze precise, e un piano in sottofondo, tanto delicato da sembrare fuori luogo. Ma noi non siamo lì per festeggiare. Siamo lì ad aspettare. Aspettare mio padre. L’illusione che avesse un cuore, che un giorno sarebbe arrivato, svaniva ad ogni ticchettio dell’orologio. L’attesa era una condanna, non una promessa. L’idea di lui, la sua presenza, era solo una maschera che non riusciva a coprire il nulla che c’era dietro. Perché in fondo, lo sapevamo entrambe, quel posto accanto a noi non sarebbe stato mai occupato. Non sarebbe mai arrivato. Eppure, per qualche strana ragione, speravamo ancora. L’atmosfera del ristorante brillava di luci soffuse, ma più il tempo passava, più il buio diventava tangibile. In quella sala, la sua assenza si faceva carne, come un peso che non riuscivamo a scrollarci di dosso.

Mia madre sorrideva, ma il suo sorriso era una maschera fragile, in bilico. Io, piccola e confusa, cercavo di tenere a bada le lacrime. Non volevo che vedesse che anche io avevo capito. Che anche io avevo cominciato a vedere la verità tra i filtri della sua illusione. Quella sera, il piatto non era il vero problema, non erano i fiori. Erano i sogni che restavano nel piatto vuoto. Il silenzio tra noi, quel non detto che pesava più di mille parole. Eppure, in qualche modo, la sua forza, la sua costanza, la sua presenza nonostante tutto, mi parlavano più di qualsiasi cosa potesse esserci in quella sala. Perché mia madre, pur in silenzio, pur dietro a quel sorriso spezzato, mi stava dando la cosa più vera che potesse esistere: la certezza che l’amore non è un fuoco d’artificio. L’amore è un silenzio che sa aspettare. È un’abbraccio che sa resistere al nulla, alla paura, alla distanza.

Ed a quel punto non c’era più bisogno di fiori. Non c’era bisogno di simboli vuoti, di parole sussurrate. Lei c’era. Ogni giorno. Quello che non sapevo all’epoca è che, nonostante il dolore, avevo già imparato la lezione più importante della vita: l’amore non è sempre perfetto, ma quando è vero, rimane, e cresce anche nei giorni più difficili. Il tempo è passato, e ora, quando vedo le coppie che si tengono per mano per strada, quando vedo chi si scambia parole dolci e regali, non sento invidia. Non provo nemmeno una punta di solitudine. Io provo gratitudine. Un amore che non ha bisogno di fiori, di feste, di promesse. Un amore che è più di una festa: è ogni giorno. E mi chiedo… Se l’amore può essere così forte, così incondizionato, così resistente, perché a volte sembra fallire? Perché, in certe storie, c’è un buco così grande da non poterlo mai riempire, nemmeno con tutta la buona volontà del mondo?

VALENTINE.
Remember me,
Eclipse

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